01 settembre 1985 —
NON MI aspetto molto - lo dico con sincero rincrescimento - dal dibattito in corso nel Pci. E' partito male, si sta sviluppando peggio, almeno a leggere i testi pubblicati sull' NUnità e gli echi che arrivano dai vari festival e segnatamente da quello di Ferrara. Cossutta rispolvera la "fuoriuscita dal capitalismo", Natta rilancia l' apertura ai cattolici, Ingrao ricorda che esser comunisti vuol dire combattere l' ingiustizia e la diseguaglianza, l' ala "migliorista" sembra ritenere che tutto si accomoderà con qualche gentilezza a Craxi e molta attenzione alla socialdemocrazia tedesca o scandinava, i veteroberlingueriani e i tardo-rodaniani cercano di ritirar fuori dalla naftalina il simulacro del compromesso storico ormai abbondantemente roso dalle tarme. L' unanimità si ricompone sull' orgoglio del nome, come se quello fosse il problema e senza capire che la proposta "provocatoria" di Carandini e di Giolitti ben altro sottintendeva che un semplice epifonema. Finora mi pare che ci sia soltanto Reichlin a cogliere la sostanza della questione, ma la sua, come già in altre occasioni è accaduto, sembra più una voce isolata che tratta argomenti e analizza problemi concreti sui quali il resto del partito sorvola distrattamente oppure, nella migliore delle ipotesi, utilizza come temi di propaganda anzichè come stimoli robusti a guardar la politica con occhi e spirito diversi dal passato. Eppure la questione comunista è ormai arrivata all' osso e non si presta ad arzigogolate divagazioni; tantomeno a fughe verso gli universali astratti e i filosofemi. La questione comunista (noi lo diciamo da un pezzo, ma giova ripeterlo nel paese dei sordi) non è quella dell' affidabilità democratica di quel partito e neppure della sua autonomia politica e ideologica dall' Urss e dalla Terza Internazionale. L' affidabilità democratica data dai tempi di Togliatti, l' autonomia dal terzinternazionalismo da quelli di Berlinguer, come attestarono Ugo La Malfa fin dal 1979, Ciriaco De Mita a partire dall' 83, Sandro Pertini da sempre, con pubbliche e ripetute dichiarazioni. Del resto, il contributo del Pci nella lotta e nella mobilitazione di massa contro il terrorismo durante i cupi anni di piombo da un lato, e la sua tenuta democratica nella gestione della crisi economica e sociale dall' altro, sono le più recenti e vistose conferme dell' affidabilità democratica e dell' autonomia del Pci. CHI si rifiuta di vedere questi dati di fatto - e sono in tanti - lo fa per pregiudizio o per pigrizia mentale o per gretto interesse di parte. Sicchè con costoro non vale neppur la pena di misurare tesi e argomenti. La questione comunista, dicevamo, è un' altra. In parole semplici la porrei così: la capacità e la credibilità del Pci di porsi come forza politica impegnata a rifondare lo Stato, questo essendo il compito primario che da tanti anni incombe sulla situazione italiana. Lo Stato unitario fu fondato in quattro anni, tra il 1861 e il ' 65. Tutte le grandi leggi sulle quali ancora si regge quello spaventapasseri sghimbescio che è la nostra pubblica amministrazione, sono di allora. Spaventapasseri sghimbescio oggi, ma ne ha pure avuta della forza e una sua organicità se ha retto per centovent' anni a mille tempeste e a mille rivolgimenti. C' erano ancora i lumi a gas e i treni si chiamavano vaporiere e i trasporti urbani andavano a cavalli, il motore a scoppio non era stato inventato, dell' aeroplano neppur l' ombra, i sindacati non esistevano e il partito socialista non era neppur nato. In quel contesto nacque lo Stato italiano. Con qualche rappezzo, qualche miglioria e parecchi peggioramenti, quelle sono ancora le leggi fondamentali che ci governano. Altro che Grande Riforma "à la mode de Craxi". Qui non si tratta di ingegneria costituzionale, si tratta d' una rivoluzione profonda, perchè al vecchio Stato dei padri fondatori, dei Ricasoli, dei Minghetti, di Quintino Sella, dei Silvio Spaventa, sorto per amministrare una società agricola e retto da un' oligarchia fondiaria, si è nel frattempo sostituita una società industriale e già per certi aspetti post-industriale. Questa società, questa struttura, priva d' una sovrastruttura politica adeguata, si è sviluppata caoticamente e selvaggiamente, secondo la legge del più forte e del più furbo, che sovrasta ed emargina il più debole e il più ingenuo. E al simulacro della pubblica amministrazione s' è sovrapposta la repubblica delle corporazioni, degli interessi protetti, dei privilegi merlati e feudali. Quando Berlinguer da un lato e Moro e La Malfa dall' altro, tra il 1975 e il 1978, ipotizzarono una lunga alleanza tra tutte le forze costituzionali, avevano ben chiaro che in un paese d' ancor fragile democrazia non si può affrontare una trasformazione profonda senza che vi sia il coinvolgimento comune dei grandi partiti e delle grandi correnti d' opinione. Solo che l' obbiettivo di Berlinguer era la trasformazione socialista della società, quello di Moro e di La Malfa era la rifondazione dello Stato. NON avemmo nè l' una nè l' altra e sappiamo il perchè. Gli interessi minacciati si coalizzarono; la violenza terrorista colpì; mafia, camorra, P2, apparati più o meno segreti, inquinarono, corruppero, devastarono. Ma soprattutto mancò in quelli che avrebbero dovuto essere i protagonisti di quell' impresa la lucida consapevolezza dell' obbiettivo, la scelta dei tempi e dei mezzi, la capacità di mobilitare il consenso popolare attorno al fine da realizzare. Mancò la Democrazia cristiana, insabbiata fino al collo nella corruttela dorotea. Mancò il Partito comunista, perso dietro alle mitologie massimaliste di uscire da non si sa cosa per entrare non si sa dove. E se la famosa alleanza di cui allora si cominciò a parlare e di cui ancora di tanto in tanto si parla nel Pci, tra le forze produttive contro quelle parassitarie, non si fece e non si fa, ciò è dovuto a quell' errore iniziale: perchè non si forma un' alleanza tra diversi per introdurre il socialismo (ma quale?) al posto dell' economia di mercato, ma si può ben costruire un' alleanza per rifondare lo Stato e le regole del gioco e una moderna pubblica amministrazione. Che altro vuole dire Reichlin quando denuncia le storture del debito pubblico, il prelievo tributario sul lavoro e sulle imprese, la crescita abnorme della rendita finanziaria, gli investimenti che producono disoccupazione, la ripresa produttiva che provoca disavanzi paurosi negli scambi con l' estero, l' emarginazione di un terzo del paese e di tutte le leve giovanili? Che altro documentano Pasquale Saraceno, Giorgio Ruffolo, Paolo Sylos Labini, Luigi Spaventa, Antonio Giolitti, Bruno Visentini, Luciano Lama, se non l' assenza non già di statalismo ma di Stato, di meccanismi che presiedano adeguatamente allo sviluppo d' una società industriale e la guidino nella libertà, la mancanza di criteri ordinatori, di autorità che tutelino il bene comune anzichè farsi mancipie delle bande e degli interessi protetti? QUESTO è il compito "liberale" e fondativo cui è chiamato - se solo lo volesse - anche il Partito comunista. Soprattutto il Partito comunista, perchè è soprattutto a vantaggio di quei gruppi sociali che esso principalmente rappresenta che il nuovo Stato da rifondare dovrà operare con efficienza e con giustizia. Il gruppo dirigente del Pci sta balbettando di formule e di concetti astratti. Ma dica invece che questo è il compito che si prefigge, insedii un governo-ombra, talloni e preceda la maggioranza nel concreto, negli atti specifici, abbia in testa un disegno strategico e una tattica che lo realizzi. Dica quale trasformazione tributaria, sanitaria, previdenziale, scolastica vuole attuare; quale politica degli investimenti e dell' accumulazione del capitale, quale livello salariale, quali regole per impedire realmente le concentrazioni e gli intrecci finanziari, quale politica bancaria, quali grandi sfide tecnologiche. E quale pubblica amministrazione debba controllare e gestire le risorse collettive, aprendo il mercato a tutte le forze innovative e castigando i rampanti che violano le regole del gioco. Se farà questo, le alleanze verranno. E che cosa volete che ci importi il nome! In Messico - pensate - il partito che governa si chiama "Rivoluzionario istituzionale"! I nomi definiscono una realtà oppure alimentano un pregiudizio. Ci importa sapere che cosa volete fare, che cosa non siete più e che cosa volete essere d' ora in avanti. E poi, chiamatevi come vi pare. - di EUGENIO SCALFARI
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