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domenica 30 agosto 2015

CRISI-EUROPA

Europa: la crisi è strutturale, la soluzione è politica

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A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne. Il gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico, appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha bisogno urgente di un altro governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. È una missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che darsi alla disperazione.
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.
La crisi della UE e dell’euro. La UE è stata fondata sulla base di una serie di gravi errori. Sbagliarono gli intellettuali e i politici che per primi concepirono l’unione come un sorta di abbraccio tra popoli che secondo loro avevano più cose in comune che differenze, a partire da una presunta “identità” o “cultura europea”, nonché dal comune orrore per le due “guerre civili” intervenute nel continente in poco più di trent’anni. Sbagliarono gli economisti nel credere e far credere che le grandi differenze di struttura industriale, produttività, composizione delle forze di lavoro, relazioni sindacali, ricerca e sviluppo, scambi con l’estero ecc. esistenti tra i vari stati membri sarebbero state colmate verso l’alto grazie ai benefici effetti di una moneta unica, l’euro. Infine sbagliarono i capi di stato e di governo nel credere che l’Unione, in quanto fondata sul principio “uno stato (piccolo o grande che fosse) uguale un voto”, sarebbe servita a contenere il predominio economico e politico della Germania.
Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale. La componente monetaria dell’Unione, fondamentale per il suo funzionamento, è stata dettata sin nei particolari dalla Germania. Nei suoi colloqui con il presidente francese Mitterrand, il cancelliere Kohl fu irremovibile nel pretendere che l’euro fosse il più possibile simile al marco; che la BCE fosse dichiarata per statuto indipendente dai governi, una clausola mai vista negli statuti delle banche centrali di tutto il mondo: tant’è vero che essa si è presto rivelata essere un organo prettamente politico, che invia lettere durissime agli stati membri, Italia compresa, affinché taglino sanità, pensioni e salari; che la BCE stessa avesse sede in una città tedesca (Francoforte). Su queste basi l’euro è stato giustamente definito il più efficace strumento mai inventato per tenere bassi i salari, demolire lo stato sociale e liquidare il diritto del lavoro.
A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna - la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica. Non basta: le politiche di austerità, secondo molti giuristi, hanno violato decine di articoli di tutte le leggi riguardanti i diritti umani e i crimini contro l’umanità, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ad oggi: leggi, si noti bene, che i trattati UE hanno a suo tempo fatto proprie. La popolazione reagisce a quanto avviene in due modi: non andando a votare nella misura del 60 per cento per l’unico organo UE democraticamente eletto, il Parlamento europeo, con punte dell’80 per cento nei nuovi stati membri (dati 2014); e dando invece un largo e crescente consenso alle formazioni di estrema destra, in Francia, Italia, Polonia, Ungheria, ecc. Il che farebbe pensare che gli elettori non abbiano memoria del pericolo che esse rappresentano per la democrazia – se non fosse che nella UE la democrazia è stata già da tempo svuotata di senso dalla oligarchia politico-finanziaria di Bruxelles e dintorni.
Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:
a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli). Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.
b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.
Nel caso invece che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro, ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica della transizione, e una estesa campagna di informazione pubblica prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.
È innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.
La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.
La crisi economica ed occupazionale. Nei paesi più sviluppati del mondo, USA e UE, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della UE, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella UE sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”). Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare.
La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.
Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.
Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.
Il caso italiano. Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.
Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.
Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.
Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.





mercoledì 23 ottobre 2013

SVIZZERA

Svizzera, prelievo forzoso dai conti dei ricchi per l'assicurazione ai disoccupati

Dal prossimo gennaio sarà prelevato l'1% dai redditi superiori a 250mila euro dei cittadini elvetici, per ripianare il fondo che consente il pagamento della assicurazione di disoccupazione destinata a chi resta senza lavoro.

Svizzera, prelievo forzoso dai conti dei ricchi per l'assicurazione ai disoccupati.

A partire da gennaio 2014 in Svizzera dai redditi superiori a 250mila euro sarà trattenuto - attraverso un prelievo forzoso – l'1 percento. Motivo? Cercare di recuperare circa 80 milioni di euro e scongiurare il crac per l'assicurazione garantita dal piccolo stato ai suoi disoccupati. Al momento il fondo per questo ammortizzatore sociale è difatti in profondo rosso: c'è un buco di ben 4 miliardi. In Svizzera il prelievo dai redditi esisteva già, ma paradossalmente non riguardava i ricchi. I calcoli del governo elvetico sono quelli di riportare in pareggio i conti dell'assicurazione, grazie al prelievo forzoso, nel giro di tre lustri. “Per anni la disoccupazione in Svizzera, con un tasso inferiore all'1%, non ha rappresentato un problema – si legge su Swissworld.org, il sito del Dipartimento federale degli affari esteri del Paese -. Durante la recessione degli anni '90, tuttavia, il numero dei senza lavoro è aumentato drammaticamente, fino al tasso record del 5,7%, raggiunto nel febbraio del 1997, in seguito alle numerose ristrutturazioni aziendali che hanno comportato tagli di organico. Dalla fine degli anni '90, grazie alla graduale ripresa dell'economia e a nuovi metodi di calcolo, il tasso di disoccupazione è sceso, fino ad assestarsi nel 2001 all'1,7%. Da allora il tasso di disoccupazione ha avuto un andamento varibile; alla fine del 2007 si aggirava intorno al 2,8%. Il tasso varia comunque secondo le regioni: nelle aree di lingua francese e italiana la disoccupazione è maggiore che nella Svizzera-tedesca. Le donne sono generalmente più colpite degli uomini e gli stranieri sono più colpiti rispetto agli svizzeri”.


continua su: http://www.fanpage.it/svizzera-prelievo-forzoso-conti-correnti-disoccupati/#ixzz2iZ2PFNfZ 
http://www.fanpage.it

mercoledì 29 maggio 2013

LAVORO

RANA PLAZA


Gap rifiuta l’accordo per la sicurezza dei lavoratori

di Ottavia Spaggiari

Dopo la tragedia del 24 aprile al Rana Plaza di Dacca, sono 31 le aziende che accettano di firmare l’accordo per migliorare la sicurezza dei lavoratori del tessile. Grande assente tra tutti la multinazionale americana Gap


rana plaza
Anche H&M ha accettato di firmare l’ accordo che intende garantire misure di sicurezza più severe nelle fabbriche tessili del Bangladesh. A fare capitolare la multinazionale svedese del fast fashion sembra essere stata decisiva la campagna virale che ritraeva sorridente l’ amministratore delegato di H&M, di fianco ad una vittima del Rana Plaza, il palazzo di Dacca crollato lo scorso 24 aprile, nel quale sono morti oltre 1100 lavoratori locali del settore tessile.
“Enough Fashion Victims?”, le vittime della moda non sono abbastanza? , questo lo slogan della campagna davanti alla quale H&M, che è anche il maggiore acquirente di capi dal Bangladesh, ha deciso di accettare le condizioni dei sindacati IndustriAll e  UNI Global Union, promotori dell’accordo. La tragedia del Rana Plaza ha riportato l’attenzione dell’Occidente sullo sfruttamento della manodopera nei paesi in via di sviluppo, da parte delle grandi multinazionali del tessile.
Impegnato in prima linea, insieme ai sindacati e alle ONG che si occupano dei diritti dei lavoratori, anche Avaaz, la piattaforma di petizioni online che, in meno di un mese, ha raccolto oltre un milione di firme per spingere le aziende a sottoscrivere l’accordo. Oltre ad H&M hanno aderito fino ad oggi 30 aziende, tra cui Inditex, proprietario delle catene di abbigliamento spagnole Zara e Mango, Primark e Tesco, Marks & Spencer, Abercrombie & Fitch e l’italiana Benetton, che proprio nel Rana Plaza aveva allocato una parte della produzione.
Unico gigante del tessile che non sembra preoccuparsi della sicurezza dei lavoratori, nè della minaccia alla reputazione del brand, rimane la multinazionale Gap che continua a rifiutarsi di firmare, adducendo preoccupazioni per le implicazioni in termini di responsabilità giuridica. Proprio Avaaz in previsione dell’incontro annuale degli azionisti della società che si terrà domani, sta portando avanti una campagna firme, per fare sì che durante il meeting Gap decida di finalmente di accettare le condizioni dell’accordo e di sottoscrivere l’accordo.

lunedì 29 aprile 2013

BAU BAU - LAVORO


Anni fa' quando lavoravo con contratti co co co (per le piu' importanti multinazionali) che duravano anche
soltanto un mese e si rinnovavano di mese in mese...in
pratica una vita sul filo del rasoio, non sai che ti succede il mese successivo...lavorerai? mangerai? potrai pagare un affitto? contratti che erano contro l'articolo delle Costituzione sul lavoro.
In quel periodo il giornale La Repubblica pubblico' 1000 email di persone che lavoravano con i contratti co co co, tra le mille email c'era anche la mia...le stampai tutte perche' erano uno spaccato del paese, adesso le cerco e ne pubblico un po', sarei curiosa di sapere che fine ha fatto questa gente, come ha risolto i suoi problemi lavorativi.

martedì 28 agosto 2012

DONNE IN MINIERA ALLA CARBOSULCIS


Su RaiNews 24 hanno intervistato delle donne che lavoravano alla Alcoa in crisi, ed ora lavorano in miniera. Anno dichiarato che con loro lavorano molti professionisti che erano disoccupati...una storia di occupazione assai dolorosa.

lunedì 20 agosto 2012

ANGELO DI CARLO...SI AMMAZZA PER MANCANZA DI LAVORO......



ROMA, MORTO L'OPERAIO SENZA LAVORO CHE
SI ERA DATO FUOCO PER PROTESTA

ROMA - È morto all'alba Angelo di Carlo, 54 anni, originario di Roma ma da anni trasferitosi a Forlì, che l'11 agosto si era dato fuoco davanti a Montecitorio, per protesta contro il suo stato di disoccupazione visto che da anni lottava con la precarietà.
Lo si apprende dai carabinieri. L'uomo, ricoverato da allora all'ospedale Sant'Eugenio di Roma, era rimasto ustionato sull'85% del corpo.
Era l'una di notte quando l'operaio arrivò in piazza Montecitorio, tirò fuori una bottiglia colma di liquido infiammabile e se lo versò addosso, poi con un accendino si diede fuoco.
Avvolto dalla fiamme si lancio verso l'ingresso della Camera dei Deputati. I carabinieri, sempre presenti nella piazza, intervennero con gli estintori riuscendo a spegnere quel corpo diventato una torcia.
L'uomo venne ricoverato in prognosi riservata al Sant'Eugenio con ustioni di secondo e terzo grado sull'85 per cento del corpo. L'operaio, vedovo, aveva grosse difficoltà economiche a causa della perdita del lavoro, ed era impegnato in un contenzioso con i tre fratelli per un'eredità.
Nello zainetto che aveva con sè c'erano, due lettere, una per il figlio, a cui ha lasciato 160 euro.

mercoledì 11 aprile 2012

I PRIVILEGIATI DELLE POSTE ITALIANE

Petitto: «In Poste Italiane oltre 6 mila esodati»
La questione degli esodati è particolarmente delicata in Poste Italiane: secondo i sindacati, infatti, gli esodi incentivati hanno riguardato oltre 6 mila dipendenti.
Sebbene la metà di loro dovrebbe salvarsi grazie al decreto milleproroghe, già in centinaia hanno lasciato l'azienda ottenendo in cambio l'assunzione del figlio o della figlia part-time.
PETITTO: «NELLE POSTE SONO 6.020». Secondo Mario Petitto, il segretario generale della Cisl Slp: «Sono 6.020 gli esodati di Poste, usciti da circa due o tre anni. Ma» ha aggiunto «una parte di questi, circa la metà, si salverà e manterrà il precedente regime grazie al decreto milleproroghe, maturando il diritto ad andare in pensione entro 24 mesi».
Resta quindi il problema per tutti gli altri. Un numero così elevato di esodati, sempre secondo Petitto, è giustificabile con numerose situazioni individuali, di transazioni avvenute tra il lavoratore e l'azienda.
ESODO A FAVORE DEL PART TIME PER I FIGLI. Di sicuro si fanno notare i presunti centinaia che hanno lasciato l'azienda in favore di contratti a tempo indeterminato part time per i figli. Secondo Petitto, è un «progetto mix» detto anche progetto svincolo. «Non è diventato un accordo aziendale» ha aggiunto, «quindi si tratta di una procedura di fatto ma non, per così dire, ufficiale».
Dello stesso parere anche il segretario generale dell'Slc Cgil, Enrico Miceli, il quale ha a sua volta spiegato che si è trattato «di una pratica, di un'opportunità offerta dall'azienda, e non di un accordo aziendale». D'accordo anche Ciro Amicone di Uil Poste che ha parlato di iniziativa «unilaterale» dell'azienda riguardo «alla possibilità di uscire facendo entrare i figli fino a un certo grado di parentela».

Mercoledì, 11 Aprile 2012

giovedì 29 marzo 2012

TROPPE TASSE - SI DA FUOCO

Troppe tasse, un muratore si dà fuoco
davanti all'Agenzia delle entrate: è grave
Un 58enne ha parcheggiato l'auto davanti alla sede del Fisco di Bologna e si è dato fuoco. Boom di suicidi per motivi economici. Schiacciati dal peso fiscale? Raccontateci la vostra storia: segnala@ilgiornale.it


Troppe tasse, un muratore si dà fuoco davanti all'Agenzia delle entrate: è grave
di Raffaello Binelli
L'uomo, un 58enne, ha lasciato due lettere, una alla commissione tributaria, in cui fa riferimento alle proprie pendenze tributarie, l'altra alla moglie. Ricoverato all'ospedale di Parma, versa in gravissime condizioni. Il sindaco di Bologna Merola: "E' un fatto sconvolgente che deve far riflettere tutti"
FONTE: IL GIORNALE

mercoledì 28 marzo 2012

GUIDALBERTO GUIDI...

GUIDALBERTO GUIDI ALL'ARENA DI GILLETTI RAI UNO IL 25 MARZO 2012

PAROLE DI GUIDALBERTO GUIDI:


In Italia per molti anni e forse per sempre, sicuramente per molti decenni non torneremo a come 10 anni fa', basta sorvolare con un aereo la baia di SINGAPORE per vedere navi che aspettano di partire con ogni tipo di prezzi di nolo.
Il lavoro si è spostato altrove, quindi le riforme servono a creare delle precondizioni: investimenti in infrastutture innovazione e ricerca.

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IL LAVORO SI E' SPOSTATO ALTROVE, per il basso costo della mano d'opera che in Italia costa 22 euro, in India o,98 euro, in Croazia 2,70 euro, Argentina 4 euro, Romania 1,70 euro.

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A Roma diciamo, mettece na pezza. Allora se noi in Italia dobbiamo lavorare al prezzo dei cinesi, come mai in Germania questo non accade? forse i politici sono piu' onesti e capaci? e i sindacati? altrettanto piu' capaci e credibili?



lunedì 26 marzo 2012

MORTI SUL LAVORO

FONTE QUI
Muore sul lavoro. Dopo 10 anni reato prescritto. La lettera del figlio
di Marco Bazzoni



ROMA - E' una telefonata disperata quella di Rosario D'amico:suo padre Antonio D'Amico morì il 6 Marzo del 2002 allo Stabilimento Fiat di Pomigliano D'arco, schiacciato da un muletto guidato da un precario. Giovedì 22 marzo 2012 è stata emessa la sentenza che ha prescritto il reato . Così la morte di Antonio D'amico resta impunita: insomma l'ennesimo scandalo.




Oggi Rosario è stato pure emarginato dalla Fiat, la stessa azienda dove lavorava il padre. E' stato messo in un capannone "confino", se così possiamo definirlo, che si chiama Fiat Logistic. In questo capannone ci stanno circa 300, tutti lavoratori iscritti fiom, slai cobas, e tutte queste persone sono rigorosamente in cassaintegrazione. Rosario è in cassa integrazione da ben 4 anni.



In questi giorni in cui parla fortemente di riduzione dei diritti (smantellamento dell'articolo 18), i mezzi d'informazione stanno perdendo di vista una notizia importante, cioè che un lavoratore possa morire sul lavoro e che nessuno paghi per la sua morte. Dove è finita la giustizia? è la domanda che sorger spontanea. Rosario afferma che questo genere di reato doveva dichiararsi prescritto dopo 15 anni, invece è stato dichiarato prescritto dopo 10.
Un' ingiustizia che uccide Antonio una seconda volta.

Questa che segue è la lettera disperata di Rosario, che non vuole arrendersi a questo stato di cose

LA LETTERA

Buongiorno,mi chiamo Rosario D'Amico e Le scrivo da San Giorgio a Cremano (Na).
Le scrivo con la speranza di trovare la voce giusta per far ascoltare le mie grida di dolore. La storia che Le racconto vede come protagonista un uomo semplice, che ha lasciato nel mio cuore e nei cuori di tutta la famiglia, tanti insegnamenti ricchi di bellissimi valori e di tanta onestà.
Questo eroe senza medaglia è mio padre D'amico Antonio una vittima sul lavoro.Nel marzo del 2002 alle ore 6.30 nello Stabilimento Fiat di Pomigliano D'arco, quella maledetta mattina è stato travolto dal muletto violentemente, come descrive la dottoressa Castaldo nell'esame autoptico.
Un carrello guidato da un operaio con contratto a scadenza, quindi privo di ogni diritto lavorativo.Dopo l'incidente ci siamo affidati alla giustizia, volevamo giustizia. Purtroppo la giustizia non esiste, nell'aula 5 della Corte di Appello di
Napoli il giudice prescrive il reato, dopo aver rinviato anche lui tre volte le udienze: dopo il danno, la beffa.
Ci siamo sentiti trattati male, la polizia ci ha circondato e noi senza dire una parola ,ma increduli cercavamo di capire. Il reato è prescritto?! Ma come, nessuno ha mai parlato di prescrizione nè il pm, nè gli avvocati della controparte. Avrei tante cose da dire ,ma in questa semplice email vi chiedo aiuto. Mio padre non può finire cosi! Vi chiedo di far sapere all'opinione pubblica la mia storia fatta di vera ingiustizia.
Aiutatemi.....vi prego.
Cordiali saluti.
Rosario D'Amico

domenica 25 marzo 2012

BERNARDO ROMANO...


C'è pure chi per mancanza di lavoro si dispera e si arrende dandosi fuoco...ricordiamo anche Bernardo Romano LSU nel comune di Cercola Napoli ...la storia QUI
Che fine avranno fatto la moglie e i sei figli?

MORTI BIANCHE e la FIAT

Sulle morti bianche voglio partire da lontano, da questo libro di Ettore Bernabei,
dove a pag.124/125/ 126/127 si parla di questo episodio:

Anno 1962 - Canzonissima - a condurla la coppia Dario Fo' Franca Rame, alla quinta settimana di Canzonissima Dario Fo' fu influenzato dallo sciopero degli edili perche' tutti i giorni uno di loro cadeva dalle impalcature crepando. I Sindacati avevano organizzato una grande manifestazione a Roma in Piazza Santi Apostoli, vi erano stati scontri con la polizia e diversi feriti tra manifestanti e agenti, decise di fare uno sketch cosi creato:

Era la storia di un imprenditore edile, bello grasso e pasciuto, con la catena d’oro sul panciotto e un grande anello con brillante al dito. Questo imprenditore aveva un’amica, naturalmente una biondona con un gran seno, era la Rame. Lo si vedeva gioire perché gli portavano la notizia che un operaio era caduto da un’impalcatura. Allora, per la felicità, l’imprenditore regalava alla biondona un gioiello.

Naturalmente Dario Fo' per contratto doveva prima passare con i suoi testi alla "bassa frequenza" cosi si chiamava una specie di censura, prima di arrivare in prima serata al pubblico.
Lo sketch non passo' e fu censurato, furono proprio i comunisti a censurarlo, nella persona di Maurizio Ferrara, padre di Giuliano Ferrara, e Carlo Galluzzi, i due dietero ragione a Ettore Bernabei Direttore generale della Rai che aveva censurato lo sketch per non creare tensioni sociali, visti gli scioperi e i disordini con le forze di polizia.
Scrive ancora Ettore Bernabei, che Luciano Lama si raccomandava sempre di andarci piano con le denunce sociali e spiegava cosi: "Qualcuno potrebbe pensare che vent'anni di sindacalismo non sono serviti a niente"

Dario Fo' per protesta se ne ando' sbattendo la porta e non si vide in Rai per 20 e piu' anni.
Quiindi ora che siamo nel 2012, vediamo bene che le morti nel posto di lavoro sono continuate fino ad oggi nella indifferenza generale...misere parole a ripetizione per ogni persona a crepare per portare la pagnotta a casa.
A proposito della FIAT cito il libretto di Gad Lerner "OPERAI" dove a pag. 193/194 un giovane addetto alle relazioni mentre fa visitare al giornalista la residenza meravigliosa del senatore Agnelli, che gira tra parquet intarsiati e affreschi alle pareti meravigliosi, l'addetto dice: " IL CASO DELLA FIAT DI TERMOLI E' ESEMPLARE, LI ABBIAMO PRESO DEL MATERIALE UMANO MOLTO GREZZO, DI TIPO AGRO-PASTORALE E LO ABBIAMO INSERITO IN MEZZO ALLE MACCHINE PIU' SOFISTICATE"

si nota vero il sangue blu della famiglia Agnelli!


E cosi succede che Rosario D'Amico, Nel marzo del 2002 alle ore 6.30 nello Stabilimento Fiat di Pomigliano D’arco, una maledetta mattina viene travolto dal muletto violentemente, come descrive la dottoressa Castaldo nell’esame autoptico.
Un carrello guidato da un operaio con contratto a scadenza, quindi privo di ogni diritto lavorativo.
Dopo l’incidente la famiglia si affida alla giustizia, volevamo giustizia dice il figlio pieno di dolore.
Purtroppo la giustizia non esiste, ieri nell’aula 5 della Corte di Appello di Napoli il giudice prescrive il reato. Quando si dice "l'Ingiustizia della giustizia"


sabato 24 marzo 2012

DAL BLOG DI ALESSANDRO GILIOLI - L'ESPRESSO

MORTI SUL LAVORO
«Buongiorno, mi chiamo Rosario D’Amico e Le scrivo da San Giorgio a Cremano (Na). Le scrivo con la speranza di trovare la voce giusta.
La storia che Le racconto vede come protagonista un uomo semplice, che ha lasciato nel mio cuore e nei cuori di tutta la famiglia, tanti insegnamenti ricchi di bellissimi valori e di tanta onestà.
Questo eroe senza medaglia è mio padre D’amico Antonio, una vittima sul lavoro.


Nel marzo del 2002 alle ore 6.30 nello Stabilimento Fiat di Pomigliano D’arco, quella maledetta mattina è stato travolto dal muletto violentemente, come descrive la dottoressa Castaldo nell’esame autoptico.
Un carrello guidato da un operaio con contratto a scadenza, quindi privo di ogni diritto lavorativo.
Dopo l’incidente ci siamo affidati alla giustizia, volevamo giustizia.
Purtroppo la giustizia non esiste, ieri nell’aula 5 della Corte di Appello di Napoli il giudice prescrive il reato.
Ci siamo sentiti trattati male, la polizia ci ha circondato e noi senza dire una parola ,ma increduli cercavamo di capire.
Mio padre non può finire cosi!
Vorrei far sapere all’opinione pubblica la mia storia fatta di vera ingiustizia.
Cordiali saluti.
Rosario D’Amico

vicenda di Antonio D’Amico si è già occupata in queste ore Samanta Di Persio . Grazie aMarco Bazzoni che mi ha inoltrato la mail del figlio di Antonio, Rosario, chiedendomi di darle risalto pubblico.

TUTTI A COLAZIONE A VILLA D'ESTE - CERNOBBIO



Lavoro/ Monti a colazione con Camusso, Alfano ed Enrico Letta
Allo stesso tavolo a Villa d'Este anche Gnudi, Profumo e Sangalli

Cernobbio (Co), 24 mar. (TMNews) - Il presidente del Consiglio, Mario Monti, si è seduto per la colazione a un tavolo nella veranda di Villa d'Este con il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, alla sua destra. Allo stesso tavolo hanno preso posto anche il vicesegretario del Pd Enrico Letta, e il segretario del Pdl Angelino Alfano.

Tra i commensali ci sono anche i ministri Piero Gnudi e Francesco Profumo oltre al presidente della Confcommercio, Carlo Sangalli, organizzatore del forum i cui lavori saranno conclusi nel tardo pomeriggio da un intervento del premier. FONTE QUI

DAL BLOG DI ALESSANDRO GILIOLI - L'ESPRESSO

Buongiorno, mi chiamo Rosario D’Amico
morte-sul-lavoro
«Buongiorno, mi chiamo Rosario D’Amico e Le scrivo da San Giorgio a Cremano (Na). Le scrivo con la speranza di trovare la voce giusta.
La storia che Le racconto vede come protagonista un uomo semplice, che ha lasciato nel mio cuore e nei cuori di tutta la famiglia, tanti insegnamenti ricchi di bellissimi valori e di tanta onestà.
Questo eroe senza medaglia è mio padre D’amico Antonio, una vittima sul lavoro.


Nel marzo del 2002 alle ore 6.30 nello Stabilimento Fiat di Pomigliano D’arco, quella maledetta mattina è stato travolto dal muletto violentemente, come descrive la dottoressa Castaldo nell’esame autoptico.
Un carrello guidato da un operaio con contratto a scadenza, quindi privo di ogni diritto lavorativo.
Dopo l’incidente ci siamo affidati alla giustizia, volevamo giustizia.
Purtroppo la giustizia non esiste, ieri nell’aula 5 della Corte di Appello di Napoli il giudice prescrive il reato.
Ci siamo sentiti trattati male, la polizia ci ha circondato e noi senza dire una parola ,ma increduli cercavamo di capire.
Mio padre non può finire cosi!
Vorrei far sapere all’opinione pubblica la mia storia fatta di vera ingiustizia.
Cordiali saluti.
Rosario D’Amico

vicenda di Antonio D’Amico si è già occupata in queste ore Samanta Di Persio . Grazie aMarco Bazzoni che mi ha inoltrato la mail del figlio di Antonio, Rosario, chiedendomi di darle risalto pubblico.

giovedì 22 marzo 2012

ART.18


La Stampa di sabato 17 marzo - Art.18


CHE IPOCRITA LA FORNERO...FIGLI E FIGLIASTRI




LA FAMIGLIA FORNERO E' SALVA, LA RIFORMA SULL'ART. 18 NON VALE PER L'IMPIEGO STATALE.

RIFORMA ART. 18...PER GLI STATALI NON VALE...


LA RIFORMA
Ministero: "Statali esclusi da nuovo art. 18"
Giuslavoristi: "Concessioni, governo mente"
Una nota del dipartimento della funzione pubblica dice che le novità sui licenziamenti si applicheranno anche ai dipendenti pubblici. E scatena la polemica. Camusso e Angeletti: "Non è vero". Alla fine Patroni Griffi chiarisce con una nota. Intanto 53 esperti da Bologna accusano: alcune tutele erano già previste: o il governo è "disinformato" o è "spregiudicato"
Lo leggo dopo Il premier Mario Monti e il ministro del Welfare Elsa Fornero (ansa)

ROMA - A fine serata arriva la precisazione del ministero della Pubblica amministrazione: "Le modifiche all'art.18 contenute nella riforma del mercato del lavoro non riguarderanno gli statali. Non a caso al tavolo non partecipa il ministro della Funzione Pubblica, Patroni Griffi". Una nota che pone fine alla querelle durata per ora. Cominciata, all'inizio del pomeriggio, quando il Dipartimento della funzione pubblica fa sapere che le nuove norme sui licenziamenti si applicheranno anche agli statali.

Una mezza rivoluzione rispetto a uno degli steccati storici dell'occupazione in Italia: quello che separa il lavoro nel pubblico dal privato in tema di licenziamenti. In tal caso, anche per gli statali il reintegro in caso di licenziamento ingiustificato sarebbe assicurato solo in caso di licenziamento discriminatorio.

La leader Cgil Susanna Camusso, in conferenza stampa, ribatte alla "strana" nota del Dipartimento della Funzione pubblica. "Licenziamenti nel pubblico, non può essere". Luigi Angeletti: "La legge 300 si applica al lavoro privato. Quindi l'articolo 18 in essa contenuto non si applica e non si è mai applicato al settore pubblico - dichiara il segretario generale della Uil in conferenza stampa -. Quindi, le modifiche apportate non si applicano. Se il governo ha pensato di cambiare io non ne so nulla e, comunque, non ci è stato comunicato nulla né in forma orale, né scritta. Nella pubblica amministrazione tutto viene regolato per legge: salari, regolamenti, disciplina". Il leader Cisl Raffaele Bonanni: "Mi ricordo che la Fornero disse che il pubblico impiego non era coinvolto. A noi non risulta e comunque siamo contrari".

Alla fine, dal ministero della Pubblica amministrazione, arriva una nota: "Solo dopo la definizione del
testo che riguarda la riforma del mercato del lavoro si potranno prendere in considerazione gli effetti che essa potrebbe avere sul settore pubblico". Insomma, aspettiamo che vengano messe a punto le norme.

Intanto finiscono nel mirino alcune norme presentate dal governo come una novità in sede di trattativa, quando in realtà si tratterebbe di tutele "già acquisite da anni". E' quanto sostengono da Bologna 53 personalità, tra professori ed esperti di diritto del lavoro, che giudicano "sconcertante" l'atteggiamento del governo, perché "disinformato" o, in alternativa, "spregiudicato.

Primi firmatari della nota sono Umberto Romagnoli, Luigi Mariucci, Piergiovanni Alleva, Giovanni Orlandini e Sergio Matone, cui seguono i nomi di 21 esperti bolognesi e quelli di altri da Torino (tra i firmatari Luciano Gallino, professore di Sociologia all'università), Firenze, Milano e Roma. Che puntano l'indice, in particolare, sulle due normative annunciate oggi a tutela dei lavoratori: l'obbligo di assumere un lavoratore a tempo indeterminato dopo 36 mesi di contratti a termine e l'estensione dell'obbligo di reintegro in caso di licenziamento discriminatorio anche in un'azienda con meno di 16 dipendenti.

Tutele che, a detta degli esperti, esistono già da tempo nel nostro ordinamento, ma che il governo presenta come nuove "per far digerire la pillola delle modifiche peggiorative". Nello specifico, i 53 giuslavoristi indicano che l'estensione dell'obbligo di reintegro nelle piccole aziende è previsto dall'articolo 3 delle legge 109 del 1990, mentre il termine massimo dei 36 mesi è previsto dall'articolo 5 comma 4 bis del decreto legislativo 368 del 2001.

domenica 18 marzo 2012

PEACE REPORTER - GIOVANI INGLESI DISOCCUPATI

Gran Bretagna, tassare le banche per finanziare l’occupazione giovanile
Una tassa sui bonus agli alti dirigenti di banca per finanziare il ritorno al lavoro dei disoccupati: il leader dell’opposizione, il laborista Ed Miliband, ha annunciato oggi un progetto che prevede per tutti gli under 24, disoccupati da oltre un anno, un lavoro retribuito di almeno 25 ore a settimana per un periodo di sei mesi, propedeutico all’ingresso stabile nel mondo del lavoro.

“È inaccettabile vedere migliaia di giovani talenti senza un’occupazione e vedere le loro speranze e i loro sogni infrangersi – ha detto Miliband –, i nostri piani prevedono l’imposizione di una tassa sui bonus delle banche al fine di promuovere l’occupazione. Tutti gli under 24 disoccupati avranno così nuove possibilità di impiego”.

A farsi carico dell’iniziativa, il governo britannico, che tuttavia per finanziarla attingerà alle casse delle banche, imponendo una tassa sui bonus milionari. Seicento milioni di sterline per centomila giovani tra i 18 e i 24 anni ‘on the dole’, ovvero destinatari del sussidio di disoccupazione statale, affinché sia loro – che spesso si ‘impigriscono’ con il sussidio –, sia le banche, diventino parte attiva nella lotta alla disoccupazione.

La proposta dei Labour è obbligatoria dopo un anno di sussidio. Miliband ha reso noto che il grosso dei posti di lavoro è nel settore privato. Il governo pagherà direttamente una somma di 4mila sterline per coprire le 25 ore di lavoro settimanali. In cambio, il datore di lavoro offrirà il tirocinio e l’addestramento per un minimo di 10 ore alla settimana, così da arrivare a 35 ore. A coloro che prenderanno parte al progetto verrà anche richiesto di avviare personalmente una ‘intensa’ ricerca di lavoro al di fuori delle 25 ore lavorative.

Si tratta di una scelta radicale, che propone una forma contrattuale più avanzata dello youth contract presentato a fine 2011 dal vice-primo ministro Nick Clegg, uno schema che prevede sussidi ai datori di lavoro che coprano la metà del salario erogato al giovane neo-assunto. “Non è un lavoro – spiega Miliband – ma un semplice sostegno economico, che non crea nuova occupazione”.

La disoccupazione giovanile ha superato il milione di persone in Gran Bretagna. I senza lavoro tra i 16 e i 24 anni sono cresciuti nei primi tre mesi del 2012 di 22mila unità, portando il numero totale a un milione e quarantamila. Il tasso di disoccupazione giovanile è del 22,2 percento. Quello generale dell’8,6 percento.