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venerdì 16 agosto 2013

LIMES - EGITTO


LIMES - EGITTO

di Lucio Caracciolo
RUBRICA IL PUNTO In Egitto i Fratelli musulmani hanno fallito, ma quelli che secondo noi sono meno distanti dai valori democratici si sono affidati a un golpe militare per rimuovere i vincitori di tutte le elezioni democratiche dell'era post-Mubarak. [articolo pubblicato su la Repubblica il 5/7/2013]


[Carta di Laura Canali]
Se nei paesi della "primavera araba" vuoi far votare il popolo, preparati a un probabile governo islamista.

Se non vuoi gli islamisti, vai sul sicuro e non far votare il popolo. Se poi il popolo ha votato e rivotato gli islamisti e tu sei abbastanza certo di non poter mai vincere un’elezione, scatena la piazza, accendi la mischia e chiama i militari a scioglierla.

Questa regola, sperimentata nel 1991-92 in Algeria, quando dittatori più o meno utili alla causa occidentale punteggiavano la galassia araba, è confermata oggi in Egitto. Dove il fallimentare esperimento dei Fratelli musulmani, incarnato dal presidente Mohammed Morsi, è stato liquidato per vie brevi dal potere militare, invocato da Piazza Tahrir e dintorni.

Paradosso: coloro che - con qualche ottimismo - consideriamo meno distanti dai valori democratici, si affidano al colpo di Stato per affermarsi sui vincitori - certo non inclini al modello Westminster - di tutte le elezioni più o meno democratiche tenute in Egitto dopo la caduta di Mubarak.

Ma il generale Abdel Fatah al-Sisi, capo delle Forze armate e quindi del massimo conglomerato economico nazionale, non intende intestarsi la responsabilità di un paese ingovernabile. Dal suo cappello ha quindi estratto il presidente della Corte costituzionale, Adly Mansour, cui è stato affidato ad interim il portafoglio di Morsi, in vista della formazione di un altrettanto provvisorio governo che dovrebbe preparare nuove elezioni.

Siccome errare è umano, perseverare diabolico, s’immagina che se e quando gli egiziani saranno richiamati alle urne, verranno prese le opportune misure perché il risultato non costringa i militari a ulteriori chirurgie d’urgenza. Magari adottando il suggerimento del celebre scrittore dentista Ala al-Aswani, icona degli intellettuali “liberali”, per il quale conviene negare il diritto di voto agli analfabeti, ossia a un egiziano su quattro - una donna su tre.

Ciò che ai militari interessa è il controllo del vasto apparato produttivo di cui sono i capofila, la gestione in perfetta autonomia del proprio bilancio e la garanzia del supporto finanziario americano: quasi un miliardo di dollari e mezzo all’anno.

Ma per intascare questa tangente - il prezzo che gli americani pagano per potersi considerare azionisti di riferimento dei militari egiziani, a tutela della sicurezza di Israele - ad al-Sisi occorre che il governo sia presentabile al peraltro assai geopolitico vaglio di legalità del Congresso Usa. Di qui lo sbarramento semantico del generale, che mentre metteva agli arresti domiciliari il primo presidente democraticamente eletto del suo paese e colpiva d’interdetto la Fratellanza musulmana, lanciava i blindati nelle piazze e censurava i media ostili, curava di comunicare che non era in corso alcun colpo di Stato.

Il golpe che non si può definire tale non elimina certo le cause che l’hanno originato. Il rebus egiziano resta insoluto nelle sue componenti economica, politica e socio-culturale.

L’Egitto è sull’orlo del collasso, con la lira in picchiata, le casse dello Stato vuote,la disoccupazione galoppante, turismo e rimesse degli emigrati ai minimi termini. Non sono bastati i pelosi oboli dell’emiro del Qatar - interessato a mettere le mani sul Canale di Suez - e di altri finanziatori affini alla galassia della Fratellanza musulmana a impedire che la crisi precipitasse, finendo per esasperare buona parte della popolazione, insofferente per la mala gestione di Morsi e associati.

Il campo politico è polarizzato e paralizzato. I Fratelli musulmani, dopo 85 anni di opposizione semiclandestina, si sono rivelati incapaci di convertirsi in forza di governo. Si sono illusi che bastasse vincere le elezioni per governare. E nelle componenti più conservatrici, di cui Morsi è espressione, hanno immaginato di poter non troppo gradualmente imporre la propria agenda al resto del paese.

Quanto alle opposizioni, che vanno dalla sinistra radicale agli ipernazionalisti, dai (pochi) liberali occidentalizzanti agli avanzi (corposi) del vecchio regime - le notizie sulla sua morte si confermano premature - non hanno mai considerato Morsi un presidente legittimo, o con il quale si potesse comunque stipulare un compromesso. Per tacere della galassia salafita, che conta di profittare della sconfitta dei Fratelli per ingrossare le proprie file.

L’eco del golpe egiziano risuona in tutta la regione e nel mondo. Esulta il presidente siriano al-Asad, contro il quale Morsi, in uno dei suoi molti gesti inconsulti, aveva chiamato alla guerra santa. Protesta inquieto il leader turco Erdoğan, finito a suo tempo in galera nell’ultimo “golpe bianco” delle Forze armate kemaliste, vieppiù allarmato dalrimpallo non solo mediatico fra Piazza Taksim e Piazza Tahrir.

E gli americani, che tanto avevano puntato sui Fratelli musulmani allo scoppio delle “primavere”? A Obama va bene tutto, purché sia scongiurato il fantasma dell’ennesima guerra civile, a massacro siriano ancora in corso, che rischierebbe di risucchiare gli americani nei conflitti mediorientali da cui cercano in ogni modo di districarsi, per dedicarsi alla sola priorità: la Cina.

I prossimi mesi ci diranno se dall’intervento delle Forze armate egiziane potrà scaturire la pacificazione fra le principali componenti politico-religiose, islamisti inclusi. Oppure se le opposizioni approdate al governo sull’onda della piazza anti-Morsi e dei carri armati di al-Sisi vorranno continuare nella prassi dei Fratelli, solo a segno rovesciato: il potere è tutto nostro, guai a chi lo tocca.

In tal caso, la reazione violenta degli islamisti frustrati è scontata. Battesimo ideale per l’ennesima leva jihadista.
(5/07/2013)

giovedì 4 luglio 2013

EGITTO

L’Egitto, la destituzione di Morsi e le rivolte di piazza Tahrir

a cura di Giorgio Cuscito e Niccolò Locatelli LIMES
Il presidente è stato deposto e sostituito dal capo della Corte costituzionale, mentre la Costituzione è stata sospesa. I nostri migliori articoli per capire e approfondire gli ultimi 2 tumultuosi anni della rivoluzione in Egitto.

[Manifestazione contro Morsi a piazza Tahrir, Cairo. Fonte: theweek.com]
In Egitto, il presidente Morsi è stato deposto e la Costituzione è stata sospesa. 

Il nuovo presidente della Repubblica, fino alle prossime elezioni, è il capo della Corte Costituzionale Adly Mansour. Presto verrà formato un governo tecnico per gestire questa fase di transizione. Lo ha annunciato il capo delle Forze Armate, il generale Abdul Fattah al-Sisi in un discorso alla nazione. 

Nel pomeriggio di mercoledì l'ultimatum di 48 ore che l'esercito aveva dato al presidente Morsi per risolvere la crisi era scaduto. In questi giorni sono state organizzate manifestazioni in tutto il paese per invocare le dimissioni del capo di Stato. Piazza Tahrir, al Cairo, è tornata a riempirsi come 2 anni fa, ai tempi della rivolta contro Mubarak.

Negli scontri tra oppositori (che si sono ribattezzati tamarod, "ribelli") e sostenitori di Morsi (questi ultimi provenienti in gran parte dalle fila dei Fratelli musulmani, il partito islamico del presidente) ci sono stati dei morti: solo nella notte tra martedì e mercoledì le vittime in una manifestazione a favore del presidente nella zona dell'Università del Cairo sono state 16.

Il presidente egiziano aveva rifiutato l'ultimatum dei militari dicendosi impegnato a lavorare per la riconciliazione nazionale e pronto a dare la vita per difendere la legittimità costituzionale. Dopo la scadenza dell'ultimatum aveva pubblicato sulla pagina Facebook della presidenza egiziana un post in cui proponeva la formazione di un governo di unità nazionale. In precedenza 6 ministri si erano dimessi e il premier Hisham Qandil aveva rimesso il mandato nelle mani di Morsi.

Il presidente statunitense Barack Obama aveva consigliato al suo omologo di "ascoltare il popolo". Il segretario della Difesa Chuck Hagel ha parlato con Abdul Fattah al-Sisi 10 minuti prima del suo discorso alla nazione, ha fatto sapere il Pentagono.

Per capire cos'è successo in Egitto in questi ultimi 2 anni, dalla caduta di Mubarak alla deposizione di Morsi, abbiamo selezionato questi 5 articoli dall'archivio di Limesonline.

1) La vera storia della rivoluzione egiziana di Sam Tadros [2011]
Questo articolo descrive i giorni della rivolta contro Mubarak, ma le sue tesi di fondo, in particolare sul ruolo dell'esercito, sono valide ancora oggi.
Uno studente egiziano fornisce una spiegazione degli eventi di questi giorni molto diversa da quella abituale. Gamal Mubarak stava modernizzando il paese. Le ragioni del comportamento dell'esercito. Scordatevi la democrazia.

2) L’immobilismo di Obama in Egitto è un mito di Luca Gambardella [2013]
Per sanare un'economia allo stremo il presidente Morsi batte cassa e tratta con l'Fmi un prestito che il popolo non vuole. Sullo sfondo, un equilibrio regionale che gli Usa vogliono preservare.

3) Perché noi rivoluzionari abbiamo perso di Pishoi Al-Qummus [2013]
La rivoluzione in Egitto è fallita perché soffocata dall’intesa fra militari e islamisti. Le ingenuità dei giovani, eccitati dall’esposizione mediatica. L’"accordo di Vermont". Ma ora che i Fratelli devono gestire il potere, può cominciare il loro declino.

4) Egitto: una rivoluzione a spese dell’economia di Giovanni Mafodda [2013]
L'economia egiziana era in crescita ai tempi di Mubarak: oggi versa in condizioni critiche ed è danneggiata dalla perdurante instabilità. Disoccupazione giovanile al 25%, debito e inflazione alti. Congelati gli aiuti occidentali e dell'Fmi, non quelli di Qatar e Turchia.

5) Di chi è la rivoluzione d’Egitto? di Alessandro Accorsi e Costanza Spocci [2013]
Due anni dopo l'inizio della rivolta che portò alle dimissioni di Mubarak, la frattura tra chi era a Tahrir dal primo giorno e i Fratelli musulmani è grande. L'economia e la credibilità di Morsi in materia sono vicine al collasso. La trattativa con l'Fmi e l'opzione finanza islamica.

Per approfondire consigliamo la lettura del numero di Limes L'Egitto e i suoi fratelli, disponibile in arretrato o su iPad.
(3/07/2013)

EGITTO...

L’immobilismo di Obama in Egitto è un mito da sfatare

di Luca Gambardella  LIMES
Per sanare un'economia allo stremo il presidente Morsi batte cassa e tratta con l'Fmi un prestito che il popolo non vuole. Sullo sfondo, un equilibrio regionale che gli Usa vogliono preservare.


[Carta di Laura Canali]
Comprare il pane, pagare le tasse e il gasolio per l’auto. In Egitto la fame di diritti civili e democrazia si ritrova a fare i conti con le spese quotidiane. 

I numeri sono eloquenti. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) per quest’anno ha rivisto al rialzo l’inflazione al 10,9%, il picco più elevato dal 2010, mentre il tasso di povertà riferito al biennio 2010-2011 ammonta al 25,5%. Ma nelle campagne il dato sale impietoso al 69%. Nel secondo semestre dello scorso anno, 4 giovani su 5 erano senza lavoro. Dallo scorso novembre i prezzi dei carburanti sono più che raddoppiati e anche il gas per la cucina è aumentato per la prima volta dal 1993. 

È eloquente anche Mohammad, 41 anni, commerciante del Cairo: «Qui tutti parlano di diritti civili, soprattutto i partiti di opposizione, ma nessuno mi dice dove trovare i soldi per la cena». 

Eppure i dati più recenti pubblicati dal governo dicono che i salari sono aumentatiin media del 20% su base settimanale. «Ma questo dato è distorto», mi dice Rashad Abdo, docente di Economia all’Università del Cairo. «Intanto non si capisce se queste cifre si riferiscano ai salari netti o lordi. E poi danno un’idea falsata della realtà perché mentre i dipendenti pubblici hanno avuto un aumento salariale dell’80% dal 2011 ad oggi, quelli del settore privato sono in diminuzione dello 0,5%. E la gran parte dei 27 milioni di egiziani che compongono la forza lavoro nazionale è impiegata nel privato. Mentre l’inflazione continua ad aumentare».

Un dato economico allarmante che negli ultimi mesi ha costretto il presidente Morsi a girare il mondo in lungo e in largo alla ricerca della liquidità necessaria per far respirare le casse dello Stato. L’emergenza assoluta è la mancanza di valuta estera che sta mettendo in pericolo le importazioni. 

Poco importa se quei soldi vengano da altri paesi arabi piuttosto che dagli Stati Uniti; lo scorso aprile, nel giro di una sola settimana, il Qatar ha acquistato titoli di stato egiziani per 3 miliardi di dollari mentre la Libia ha accordato un prestito di altri 2 miliardi. 

Ma al Cairo sono in molti a pensare che, con Mubarak al potere, l’immagine del paese non sarebbe stata così svilita da ingenti debiti con l’estero per risolvere gli attuali problemi economici. Difficile allora che i prestiti ottenuti fino a oggi riescano a bloccare il calo di consensi che sta colpendo Morsi negli ultimi mesi.

Si batte cassa quindi. Dal Golfo Persico a Mosca, passando per Ankara e Tripoli. Ma le vere risposte che il governo della “Fratellanza” attende con ansia vengono da Occidente, dall'Fmi, deus ex machina delle sorti egiziane. Da mesi la trattativa tra il Fondo e il Cairo si trascina senza giungere alla fatidica concessione di un prestito da 4,8 miliardi di dollari. 

Una cifra modesta se paragonata alla somme ben superiori fin qui elargite, ad esempio, dal Qatar. Il professor Abdo chiarisce: «Si stima che la sottoscrizione dell’accordo con l’Fmi aprirebbe la strada ad ulteriori 14,5 miliardi di dollari che verrebbero messi a disposizione da altri paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Il prestito del Fondo è una cifra ridicola di per sé. È piuttosto un nullaosta per ottenere altri prestiti futuri, provando al mondo che l’Egitto sarà, un giorno, solvibile». 

«Prima di tutto, il prestito non risolverà nulla,  anzi peggiorerà l’indebitamento verso l’estero. Secondo, nessuno ha letto una sola riga delle condizioni che l'Fmi ha sottoposto al governo per concludere il prestito» rivela Ahmed El Naggar, capo economista del Centro per gli studi politico-strategici al Ahram, uno degli istituti di ricerca politica ed economica più importanti del Medio Oriente. 

In effetti l’unico dato certo è che l'Fmi ha chiesto riforme fiscali, alcune delle quali traumatiche, come l’aumento delle imposte e il taglio dei sussidi finora garantiti dallo Stato per le fonti energetiche, gas e benzina in primis. Il tutto per rientrare da un deficit di bilancio che oscilla attorno al 12%. Misure osteggiate proprio dalle classi medio-basse, già oberate da tasse, stipendi da fame e disoccupazione. 

«Se quell’accordo verrà concluso i prezzi dei beni di consumo essenziali aumenteranno ancora e l’Egitto diventerà un inferno», ammette il professor Abdo, seduto su una poltrona rivestita in damasco del suo appartamento nella zona residenziale di Zamalek. «Guardi il Cairo: anche da un punto di vista urbanistico, a poche centinaia di metri da qui c’è il quartiere operaio di Bulaq. Dove crede che verrà a cercare il pane quella povera gente?».

Eppure le alternative non mancherebbero, come spiega El-Naggar. «Innanzitutto occorrerebbe eliminare quei sussidi che oggi sono garantiti alle grandi industrie e alle multinazionali. Abbiamo stimato che otterremmo 27 miliardi di sterline egiziane da destinare alle classi più basse. Basterebbe questo per rinunciare al prestito. Non ne risentirebbero nemmeno i prezzi dei prodotti: sono già più alti di quelli internazionali e un aumento ulteriore incoraggerebbe le importazioni e quindi la concorrenza sul mercato interno. Non lo farebbero mai».

Altro punto è quello dello sfruttamento delle enormi risorse naturali di cui dispone l’Egitto. «È dal 1956 che non vengono adeguati i prezzi dei materiali grezzi a quelli dei mercati internazionali. Solo con questo incasseremmo tra i 7 e i 25 miliardi di sterline egiziane all’anno. Per non parlare dei prezzi del gas che esportiamo in Spagna e in altri paesi europei, ad oggi scarsamente concorrenziali. Infine bisogna rivedere gli interessi sui prestiti che le banche, per lo più pubbliche, assicurano allo Stato. Oggi la pubblica amministrazione incassa prestiti a tassi che oscillano tra il 13 e il 17% mentre un privato cittadino arriva a dover pagare interessi che raggiungono anche il 9%. Un’enormità».

Ma dietro i prestiti internazionali ci sono soprattutto interessi politici. Il Qatar è stato finora il principale finanziatore del governo dei Fratelli musulmani. La caduta di Mubarak è stata un affare per Doha che è riuscita a porre fine al gelo diplomatico che esisteva tra i due paesi quando al potere c’era il raìs, acerrimo nemico dell’iperattivismo del piccolo emirato. E poco conta se il Cairo non sarà in grado di restituire il denaro prestato. 

«I miliardi che il Qatar continua a versare nelle casse dei Fratelli non sono tracciabili. Non esistono documenti che dicano dove vanno a finire quei finanziamenti» rivela El Naggar. «Gran parte di quei soldi finisce nel bilancio degli Ikhwan (i Fratelli musulmani, ndr), i cui dati sono inaccessibili al pubblico». 

Dietro il Qatar c’è Washington, interessata a preservare gli equilibri regionali e quindi il trattato di pace tra Egitto e Israele. «Qatar e Fmi sono solo strumenti nelle mani degli Stati Uniti per non modificare lo status quo nella regione. A nessuno interessa un durevole sviluppo economico dell’Egitto; vogliono che in futuro abbiamo ancora bisogno del loro aiuto» continua il professor Abdo. «Ad Obama si imputa una politica troppo attendista verso il Medio Oriente. Forse. Non ricordo con esattezza quanti viaggi verso Washington abbiano fatto i leader dei Fratelli musulmani nei mesi precedenti alle elezioni del 2012. Ma tutti sanno che furono tanti. Troppi».

Il presidente Morsi, intanto, continua a prendere tempo, conscio che la ratifica dell’accordo con l'Fmi potrebbe rivelarsi letale e accendere le piazze innescando una nuova ondata di rivolte. I consensi sono in calo ma la trattativa, secondo le previsioni, dovrebbe chiudersi a breve, con ogni probabilità prima delle prossime elezioni legislative, posticipate all'autunno. Dal canto suo, l’amministrazione statunitense resta in attesa, cosciente che anche in seno allo stesso Fmi esistono forti dubbi sulle capacità del governo egiziano di avviare le riforme richieste e di saldare il debito in futuro.

«Ma Washington vuole garantire che in Egitto si crei un mercato capitalistico aperto, dove poter fare buoni affari e favorire le proprie multinazionali» conclude Abdo. «Che il 40% degli egiziani vivano con circa due dollari al giorno, agli Usa non interessa. Nemmeno il rischio di una guerra civile li preoccupa più di tanto. Se Morsi fallisse nel garantire le riforme che gli interessano, sanno che troverebbero qualcun altro pronto a tutelare i loro interessi». 

Forse l’immobilismo dell’amministrazione Obama in Egitto è un mito da sfatare.


(11/06/2013)

domenica 20 gennaio 2013

LUCIO CARACCIOLO - LIMES

Quel che resta del colonialismo

di Lucio Caracciolo - LIMES
RUBRICA IL PUNTO Se sei stato un impero, come nel caso della Francia, il passato non passa mai. Parigi in Mali difende il proprio rango, memore della propria "missione civilizzatrice". La Françafrique è stata ripudiata a parole, ma nei fatti è ancora lì. [articolo pubblicato su la Repubblica il 17/01/2013]

L'Africanistan di Parigi


[Carta di Laura Canali]
Se sei stato un impero, non finisci mai di esserlo. Se poi eri l'impero francese, che all'alba della Seconda guerra mondiale si estendeva per 12 milioni e mezzo di chilometri quadrati (ben più dell'intera Europa, venticinque volte l'Esagono, inferiore solo al Commonwealth britannico), il passato non passa mai. Nel caso lo dimenticassimo, ce lo ricorda l'attualità.

Oggi l’élite delle forze armate tricolori si sta battendo nel cuore del Sahara/Sahel per impedire che alcune bande di terroristi s’impadroniscano di quel che resta del Mali, già Sudan francese. Siamo in piena ex Africa occidentale francese, enorme spazio coloniale che, insieme al corrispettivo territorio africano-equatoriale componeva fino a tre generazioni fa il sistema imperiale gestito da Parigi nel Continente nero, abbracciandone più di un terzo.

A ogni impero corrisponde un’ideologia. Da Napoleone in avanti, per la Francia si tratta(va) della «missione civilizzatrice». Non solo conquista di territori e sottomissione di popoli, a colorare di proprie tinte i planisferi. E neanche puro sfruttamento economico - la politica coloniale come figlia della politica industriale. Molto di più. Si tratta(va) di fertilizzare il mondo disseminandovi i valori universali della Francia rivoluzionaria. Come diceva Jules Ferry, che ai tempi della Terza Repubblica battezzò la scuola laica gratuita e obbligatoria, «le razze superiori hanno diritto di civilizzare le razze inferiori». (Quando François Hollande vorrà ricordare Ferry nel suo primo discorso pubblico, alle Tuileries, non mancherà di condannarne questo «errore morale e politico».) Solo gli Stati Uniti vorranno poi, con superiori mezzi, seguire un analogo percorso missionario, suscitando perciò una competizione squilibrata ma persistente con l’universalismo francese.

Sicché oggi deve costare molto all’Eliseo chiamare in soccorso la Casa Bianca per garantire le coperture satellitari, logistiche e di intelligence di cui il proprio corpo di spedizione in Mali non può disporre. Di più, il colonialismo francese non si fondava sulla geopolitica delle teste di ponte costiere, alla portoghese, né tantomeno sul dominio indiretto, all’inglese, ma sul principio dell’assimilazione. L’impero come estensione del territorio metropolitano, anche sotto il profilo amministrativo. Le classi dirigenti locali venivano (vengono) educate sui manuali e con le tecniche distillate nei laboratori del grandioso apparato statale centrato su Parigi e di lì irradiato nei dipartimenti, africani inclusi.

Dopo la strana vittoria del 1945 - e sotto la pressione degli Stati Uniti, che volevano concentrare tutte le energie occidentali nel contenimento dell’imperialismo sovietico - la Repubblica francese è costretta a cedere, pezzo per pezzo, il grosso dei suoi domini extraeuropei. Ne rimane oggi pallida traccia, sotto forma di regioni, dipartimenti e altre entità d’oltremare, da Mayotte alla Riunione, dalla Nuova Caledonia alla Polinesia, da Martinica alla Guyana. Ciò che contribuisce a difendere il rango mondiale della Francia, sigillato dal titolo di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dall’arsenale nucleare. Rango cui Parigi tiene moltissimo, anche per bilanciare la crescita della potenza tedesca in Europa.

Quanto all’Africa, dopo il lutto non ancora elaborato della guerra d’Algeria, la Francia ha saputo mantenervi una sfera d’influenza che ricomprende grosso modo le sue antiche terre imperiali. A fondarla contribuisce lo strumento linguistico-culturale, istituzionalizzato nella francofonia, per marcare il senso geopolitico della difesa dell’idioma nazionale. Insieme, un reticolo di relazioni politico-economiche, a lungo centrato sulla “cellula africana” dell’Eliseo, diretta fino a pochi anni fa da Jacques Foccart.


[Carta di Laura Canali]

È la Françafrique, termine divenuto peggiorativo per la penna di François-Xavier Verschave, che la denunciò nel 1998 come organizzazione criminale segreta incistata nelle alte sfere della politica e dell’economia transalpina. Basata sulla corruzione, sui rapporti personali con questo o quel dittatore/padrone (franco)africano, sugli interessi dei “campioni nazionali” dell’industria transalpina, specie nel settore energetico e minerario. Una macchina da soldi, infatti ribattezzata France-à-fric da giornalisti malevoli.

Sarkozy prima e Hollande poi hanno preso le distanze dalla Françafrique, ma chiunque voglia vederle ne trova ancora forti tracce nei territori africani già inglobati nell’impero tricolore. Vi restano anzitutto i privilegi della grande industria, che incarna interessi strategici irrinunciabili (per esempio, lo sfruttamento dell’uranio nigerino da parte di Areva, vitale per la produzione energetica nazionale).

Parigi non rinuncia al ruolo di gendarme nella “sua” Africa - anche oltre, come dimostra il caso libico. Nel Continente nero restano schierati in permanenza circa 7.500 soldati francesi. Nel solo teatro maliano, il ministero della Difesa prevede di impegnarne a breve 2.500, e forse non basteranno per evitare l’insabbiamento della missione antiterrorismo. Certo, l’epoca dell’“unilateralismo” è passata, oggi Parigi cerca (e talvolta non trova) il sostegno degli alleati occidentali e dei paesi africani più vicini alle zone di crisi.

Più che una scelta, il “multilateralismo” - ossia l’impiego di risorse altrui per fini propri, o almeno il tentativo di farlo - è una necessità. Alla fine, quel che conta è proteggere il rango dell’Esagono nel mondo, la grandezza della Francia. Anche per questo, nelle carte mentali dei decisori francesi la memoria dell’ex (?) impero campeggia vivissima.

Per approfondire: "La Francia senza Europa" | "Fronte del Sahara"
(17/01/2013)

venerdì 16 novembre 2012

LIMES....

Israele contro Gaza, una guerra annunciata

di Umberto De Giovannangeli
Il nuovo conflitto nasce dai calcoli elettorali dei falchi israeliani e da quelli politici dell'ala radicale palestinese, in lotta per il potere. Obama ha dato il suo assenso sperando che non si riparli di attacco all'Iran. Rispetto al 2008, è cambiato il Medio Oriente.

Il tempismo perfetto dell'attacco di Israele

israele
[Il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman. Di fronte a lui, il premier Benjamin Netanyahu. Fonte: Ansa]
Il vuoto della politica è sempre riempito dal clamore sinistro delle armi.

È la legge non scritta in Medio Oriente. Una legge inesorabile che oggi viene di nuovo applicata nella guerra di Gaza. Una guerra annunciata.

Non solo dai razzi che a centinaia sono piovuti negli ultimi tempi da Gaza sulle città frontaliere israeliane. Ad annunciare la guerra è qualcosa di altro. Come 4 anni fa: calcoli politici. Che, da fronti opposti, uniscono i falchi israeliani con il composito fronte radicale palestinese, all’interno del quale è in atto, e non da oggi, uno scontro per la leadership giocato a colpi di razzi (su Israele) e di resa dei conti a Gaza.

Un doppio azzardo, dunque. I tempi - oltre che l’obiettivo “mirato” scelto da Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman per una operazione “Piombo fuso” bis - sono calcolati: oggi, perché tra due mesi Israele va alle urne e per la destra israeliana è meglio che la partito con ciò che resta della sinistra sionista si giochi sul terreno più favorevole: quello della sicurezza.

In una terra che si nutre di simboli, è altamente simbolico l’obiettivo eliminato: Ahmed al Jabaari, capo militare di Hamas ma, soprattutto, l’uomo che agli occhi dei palestinesi della Striscia ha tenuto in scacco il potente “nemico sionista” orchestrando e gestendo il lungo sequestro di Gilad Shalit, riuscendo laddove il “moderato” Mahmud Abbas (Abu Mazen) non era riuscito: liberare mille prigionieri palestinesi in cambio del giovane caporale di Tsahal.

L’”eroe” che sembrava invincibile (era sfuggito a quattro tentativi di eliminazione da parte israeliana) è stato colpito e abbattuto. Nessuno è immune dalla vendetta d’Israele: un messaggio che vale mille spot elettorali.

Ma la guerra di Gaza, e la rappresaglia minacciata e già in parte avviate da parte di Ezzedine al-Qassam, il braccio armato di Hamas di cui al Jabaari era il capo, serve anche ad Hamas per tornare a praticare il terreno più consono al suo profilo: quello della lotta armata, facendo così dimenticare i suoi ripetuti fallimenti come forza di “governo” a Gaza.

Dunque la parola è tornata alle armi. Ed è cronaca di guerra. Quindici morti e decine di feriti nelle ultime 24 ore a Gaza e tre vittime nel sud di Israele: questo è il bilancio provvisorio del secondo giorno dell'operazione "Pillar of Defense" lanciata da Israele contro i gruppi armati nella Striscia di Gaza. Ed è un bilancio destinato a salire.

Come 4 anni fa. Stesso periodo politico, subito dopo le elezioni presidenziali negli Usa, e prima del voto (allora a febbraio, oggi a gennaio) in Israele. Ma la storia non si ripete mai uguale a se stessa. Perché stavolta, a essere profondamente cambiato rispetto a 4 anni fa, è lo scenario mediorientale.

In Egitto non comanda più l’”ultimo faraone”, Hosni Mubarak, ma al potere sono saliti i Fratelli musulmani e il loro presidente, Mohamed Morsi, non può dimenticare che Hamas nasce e si sviluppa come “costola” della Fratellanza musulmana egiziana. In un discorso al paese Morsi ha affermato che l'Egitto si schiera "accanto al popolo palestinese per mettere fine all'aggressione israeliana su Gaza". "L'aggressione israeliana nella Striscia è inaccettabile e porta solo instabilità nella regione", ha aggiunto. Ieri l'ambasciatore egiziano in Israele è stato richiamato e oggi è stato riaperto il passaggio di Rafah, al confine tra Gaza e l’Egitto.

Lo scenario è profondamente cambiato anche sul fronte Nord dello Stato ebraico, nella devastata Siria, in cui non è più saldamente al potere quel Bashar al-Assad che a Gerusalemme, fronte israeliano, viene ancora visto come il “male minore” rispetto ad un'opposizione in armi tra le cui file è sempre più invasivo il peso della componente jihadista.

L’unica cosa che è rimasta uguale a se stessa è l’inerzia internazionale, che, ieri come oggi, si consuma in appelli alla moderazione o - è il caso di Barack Obama - nel prendere decisamente le parti d’Israele e del suo “diritto di difesa”. Stavolta, il voto della comunità ebraica non c’entra, così come l’influenza, sempre molto forte, della trasversale lobby israeliana negli Usa.

Stavolta a guidare Obama è la scelta della “guerra minore”: dare via libera a Israele a Gaza per sbarrarla sul fronte iraniano. Ma a ben vedere, anche questo è un azzardo. Perché la “guerra minore” potrebbe deflagrare in un conflitto regionale con un devastante, e al momento incalcolabile, effetto domino sull’intero “Grande Medio Oriente”.
(15/11/2012)