Elenco blog personale

sabato 27 febbraio 2016

FULVIO SCAGLIONE...

PANEBIANCO, LA GUERRA, LA CENSURA. MA DE CHE?

PanebiancoIl professor Panebianco e la contestazione in aula.
Premessa: sono contrario, da sempre, a qualunque forma di boicottaggio. Mi è capitato anche di scriverlo. E la ragione è semplice: di solito, embarghi e boicottaggi producono effetto zero sui potenti che dovrebbero colpire ma scaricano le loro conseguenze su chi non c’entra. A Cuba, l’embargo non ha fatto saltare i Castro. In Iraq non ha fatto saltare Saddam Hussein. In Iran non ha fatto saltare gli ayatollah. In tutti questi casi, però, ha fatto danni a cubani, iracheni e iraniani innocenti. Figuriamoci, quindi, se posso essere favorevole a un embargo, anche se mini, contro un professore universitario come Angelo Panebianco.
A conferma della mia modesta dottrina sugli embarghi, il professor (nonché editorialista delCorriere della SeraAngelo Panebianco è uscito dalla contestazione più bello e più forte che pria (proprio come Castro, Saddam e gli ayatollah), con l’aureola del martire. A rimetterci, semmai, sono stati gli studenti che volevano seguire la lezione e non hanno potuto. Nel loro piccolo, i cubani, iracheni e iraniani di turno.
Devo dire, però, che tutta la vicenda puzza di vecchio. Da un lato, la sorpresa di chi, come Panebianco, si pronuncia sui giornali e scopre con un filo di raccapriccio che c’è anche qualcuno che ha letto, non è d’accordo e glielo va a dire. Una ventata di realtà che spalanca le finestre di chi ancora concepisce la comunicazione come un senso unico: io dico, tu ascolti. Atteggiamento che spiega perché, nell’epoca delle interazioni e della comunicazione orizzontale, i giornali tradizionali, fatti come se Facebook non ci fosse e il quotidiano fosse tuttora un rito unico e indispensabile, stanno andando a banane.

Panebianco e i contestatori

Ma ragazzi della contestazione, lasciatevelo dire: come siete poco 2.0 anche voi! Impedire al professor Panebianco di parlare e agli studenti di ascoltarlo è antidemocratico e inefficace. Roba da mesozoico, da Anni Settanta, quando facevo io l’Università. Oggi ciò che dovete fare è l’esatto contrario: lasciar parlare il professor Panebianco, anzi incitarlo a parlare. Poi prender nota, confrontare e farci capire se parla da scienziato della politica o… cosa?
Allora andate a prendere la collezione del Corriere della Sera e chiedetegli, in buone maniere, se pensa ancora che coloro che nel 2003 davano dello “stupido cowboy” a George Bush si sentano oggi costretti ad ammettere che “…con la guerra in Iraq cominciò a cambiare il volto politico del Medio Oriente” (2 marzo 2005). In meglio, ovvio. Perché, scriveva nello stesso articolo, “… la guerra in Iraq ha messo ora in moto potenti forze che scuotono l’area. Le prime elezioni libere in Iraq e in Palestina stanno scatenando un’onda democratica, un effetto di contagio, destinato a durare”.
Chiedetegli, già che ci siete, se riscriverebbe (4 luglio 2005) che con l’elezione di Ahmadinejad “crescerà, nei prossimi mesi, la tendenza dell’Iran all’esportazione del terrorismo, dall’Iraq alla Palestina al Libano. Soprattutto, se è accurata la previsione secondo cui solo un pugno di mesi è necessario all’Iran per completare il suo programma nucleare, ciò che si è sempre temuto, una guerra nucleare in Medio Oriente, diventerà uno scenario non più improbabile… Per non parlare del fatto che Al Qaeda potrebbe ottenere dall’Iran atomiche da usare in Occidente. Anche a non considerare le prospettive più catastrofiche chi può comunque pensare che, nello scenario di insicurezza e destabilizzazione (con effetti dirompenti sul prezzo del petrolio) che l’elezione di Ahmadinejad annuncia…”. Badate bene: il terrorismo dell’Iran in Iraq (????), la bomba atomica dell’Iran (manca “un pugno di mesi”, come da trent’anni a questa parte), la bomba atomica degli iraniani sciiti nelle mani dei sunniti di Al Qaeda, finanziati dai sunniti dell’Arabia Saudita. E, bellissima, la crisi al rialzo del prezzo del petrolio causa l’instabilità indotta dall’Iran.
E se è sempre convinto che è “evidente che con regimi come quello iraniano si tratta efficacemente solo se la minaccia dell’uso della forza è comunque in agenda”. (13 luglio 2005)
Chiedete al professor Panebianco, senza offenderlo, se creda che la democrazia si possa esportare, come scriveva spesso in quegli anni. O se creda tuttora nella guerra preventiva, al punto che “nessuno deve mai escludere a priori (è questo il senso della preemptive war) che operazioni militari risultino in futuro necessarie per impedire ai terroristi di impadronirsi di quelle armi di distruzione di massa che, fino ad ora, non sono riusciti a usare in Occidente” (13 luglio 2005). Perché, come sappiamo, proprio a questo servì la preemptive war del 2003, essendo l’Iraq allora pieno di armi di distruzione di massa che, com’è noto, stavano per essere passate ai terroristi. Che non erano riusciti a usarle in Occidente forse anche perché non c’è nella storia un solo caso in cui le armi di distruzione di massa non siano state usate da eserciti regolari.
Queste sono solo alcune perle che l’amico Ghighi ha rintracciato per me. Ma si potrebbe chiedere al professor Panebianco anche se la sua benevola comprensione di allora per l’impiego della tortura e per la limitazione delle libertà individuali nella lotta al terrorismo sia sempre in vigore, visto che attentati e vittime in questi anni di applicazione delle sue teorie non hanno fatto che aumentare. Che ci sia qualcosa di sbagliato nei metodi antiterrorismo, oltre che ovviamente nei terroristi?
Allora c’era qualche milione di persone, compresi i pacifisti che Panebianco copriva di disprezzo dalle colonne del Corriere, che ritenevano le sue convinzioni errate. Ma oggi, dopo che i fatti hanno dato ragione a loro, in cattedra a insegnare “Teorie della pace e della guerra” e a pontificare sul Corriere c’è sempre lui. Mi piacerebbe insomma sapere se nel mondo ovattato in cui vivono professori ed editorialisti (che, così a naso, in Medio Oriente il piede non ce lo mettono) è previsto, da qualche parte, un minimo confronto tra ciò che dicono e ciò che succede. Tra le conclusioni che tirano e ciò che accade nel mondo reale. Tra l’aplomb dello scienziato e il ringhio dell’ideologo.

FULVIO SCAGLIONE

SE L’OCCIDENTE RAGIONA COME L’ISIS

occidenteUn'ipotesi di spartizione della Siria?
L’ultimo ad approdare anche sui nostri giornali è stato Paul Eaton, generale in pensione, l’ufficiale che nel 2003-2004 comandava le operazioni americane in Iraq per la ristrutturazione e l’addestramento delle truppe irachene. Anche Eaton replica il mantra tanto diffuso in Occidente: ovvero,  la Siria va spartita. Uno staterello alawita, dice Eaton, visto che ormai i russi sono lì e Assad (o uno dei suoi eredi politici) non se ne andrà tanto facilmente. Uno staterello curdo a Nord. E un terzo Stato che si presume sunnita. In questo modo, aggiunge Eaton, ci si potrebbe concentrare nella lotta contro l’Isis. Che fino alla sconfitta, aggiungo io, sarebbe un quarto staterello.
Lasciamo per un attimo da parte il fatto che la Turchia, protetta dagli Usa e dalla Nato, sta bombardando i curdi proprio per evitare che possa mai nascere un’entità curda di qualunque genere. E trascuriamo anche il fatto che è poco chiaro chi controllerebbe il terzo staterello che dovrebbe nascere, quello sunnita ma non Isis: i “ribelli moderati”? Gli uomini di Al Nusra e delle altre formazioni islamiste? Gli uni e gli altri? Eaton è un democraticoma la stessa proposta era stata avanzata, qualche mese prima, da un politico della destra repubblicana, John Bolton, ex ambasciatore Usa all’Onu ed ex viceministro degli Esteri di George W. Bush. Anche lui è per la costituzione di uno staterello sunnnita tra Iraq e Siria, più uno staterello alawuita e uno curdo. Stessi problemi di prima ma le teste d’uovo dell’Occidente con certi “particolari” fanno fatica.

Occidente e Al Baghdadi

Ma non importa. Quel che preme notare è la straordinaria consonanza delle ricette più diffuse in Occidente con quelle sostenute e proclamate dall’Isis. Anche l’Isis vuole far nascere uno Stato a carattere etnico-religioso, solo che non lo chiama Stato ma lo chiama califfato. Uno Stato per i sunniti di culto wahabita della regione tra Siria e Iraq. D’altra parte, può anche darsi che l’Isis abbia ragione: uno Stato simile esiste già, dal 1932 addirittura, si chiama Arabia Saudita e da decenni lo definiamo “arabo moderato” e “alleato fedele” del nostro Occidente. Perché dunque non farne un altro?
Soprattutto perché poi da parte nostra proponiamo la stessa ricetta. Dell’ex generale Eaton si è detto. Ma anche i think tank più seri e accreditati si sono esercitati su quest’idea. Per esempio la Brookings Institution, che nel giugno dell’anno scorso ha dedicato un lungo rapporto alla “destrutturazione della Siria”, da ridurre appunto a una serie di staterelli più o meno confederati. L’autore del rapporto, Michael O’Hanlon, scriveva anche che “non c’è la possibilità di togliere di mezzo Assad in alcun modo, perché ciò vorrebbe dire spianare la strada all’Isis” (“… they can neither attempt to unseat President Assad in any concerted way because doing so would clear the path for ISIL“), ma questo piccolo particolare dev’essere sfuggito a molti.
E questo per la Siria. Per l’Iraq fu accarezzata a lungo, in Occidente, la stessa soluzione. Per fare un esempio, e nemmeno ai massimi livelli (lì potremmo citare il vice presidente Joe Biden e una pletora di politici e intellettuali dell’epoca Bush), ricordiamo il nome di Peter Galbraith, ambasciatore degli Usa di Bill Clinton in Croazia all’epoca delle guerre nei Balcani e poi (2003-2005) consulenti dei partiti curdi durante i lavori per la stesura della nuova Costituzione irachena. Nel 2007 Galbraith diceva al Corriere della Sera quanto segue: “L’Iraq di fatto non esiste più. Al suo posto ci sono tre entità piuttosto omogenee… Il Nord curdo, il Sud sciita, il centro sunnita: assecondare questa divisione e spostare i nostri soldati in Kurdistan è l’unica soluzione. Cercare di tener insieme i pezzi è inutile. E non farà che allungare la tragedia”.
Quindi, la soluzione per la Siria e l’Iraq sarebbe di spezzettarli in una serie di staterelli a base etnico-religiosa, dove avresti diritto di stare perché sciita, alawita, curdo, sunnita o chissà che. Proprio come sostiene l’Isis, che immagina un califfato wahabita dove puoi stare perché sei wahabita, altrimenti di devi ripagare con il lavoro e la sottomissione il diritto di esistere (dhimmi) oppure puoi essere cacciato o sgozzato. L’esatto contrario di ciò che fa da premessa alla democrazia, dove il cittadino gode di diritti e obbedisce a doveri in base alla cittadinanza, cioè alla comune appartenenza nazionale, non alla fede religiosa o all’etnia. Senza contare che, come l’Isis dimostra, e con lui una lunghissima serie di riferimenti storici, questi staterelli connotati in base alla fede religiosa o all’etnia di origine sono poi sempre i più inclini all’intolleranza e alla guerra. Povero Occidente, come sei ridotto.

FULVIO SCAGLIONE ...LIBIA

SOLITA STRATEGIA IN LIBIA: DIVIDE, IMPERA, SPARA

strategiaResiduati bellici in Libia.
Niente da fare, non se ne esce. La strategia è sempre la stessa. Prendi uno Stato che ti interessa, diciamo la Libia, lo scardini a suon di bombe, lasci che i pezzi vadano alla deriva, poi decreti: non c’è nulla da fare, bisogna spezzettarlo. E prepari un’altra guerra o un’occupazione militare. Strategia illuminata, come dimostrano le condizioni del Medio Oriente in genere e, in particolare, dei Paesi come l’Iraq dove essa è stata applicata. Ma tant’è, si continua imperterrriti e indisturbati.
Il caso della Libia, se tale strategia fosse davvero applicata, potrebbe persino diventare più inquietante. Intanto, perché c’è il solito buo nero politico da rimontare. Una volta fatto cadere e ammazzare Gheddafi, ci siamo precipitati a riconoscere il Governo di Tobruk, perché più “laico” e soprattutto perché dotato di un’armata, quella guidata dal generale Khalifa Belqasim Haftar che è un vecchio amico degli Usagià arruolato negli anni Ottanta ne tentativo di rovesciare il regime di Gheddafi, Haftar fu poi riscattato, portato in America, dotato di cittadinanza americana e nel 2011 riportato in Libia per dare un leader all’insurrezione contro Gheddafi. Nel 2015 è stato nominato ministro della Difesa e capo di Stato maggiore appunto dal Governo di Tobruk.
Peccato che ora siano proprio il “nostro” Governo, quello di Tobruk, e il “nostro” generale, Haftar appunto, a silurare il piano Onu per un Governo di unità nazionale, la cui richiesta (e questa è la posizione italiana) potrebbe poi aprire le porte a un intervento sotto l’egida delle Nazioni Unite. Mentre il Governo islamista (più o meno moderato) di Tripoli, che abbiamo fin qui osteggiato, sarebbe d’accordo.

Strategia e realtà in Libia

Bel colpo, grande strategia. Anche perché mentre i mediatori trattatano e l’Italia insiste, altri Paesi lavorano per mandare tutto a monte e arrivare alla famosa partizione del Paese: Tripolitania, Cireneaica e Fezzan. La Francia ha già mandato reparti speciali dell’esercito e dei servizi segreti a dare una mano alle truppe di Haftar, ora impegnate a scontrarsi con le milizie Isis attestate nella regione di Sirte. Le ragioni di Hollande sono chiare e sono le stesse per cui Sarkozy scatenò la guerra nel 2011: instaurare un protettorato sulla Tripolitania e garantirsi il controllo dei giacimenti off shore di gas e dei gasdotti. La Gran Bretagna, a sua volta, mira alla Cirenaica con i suoi pozzi di petrolio e il lungo confine con l’Egitto.
Ai di là dei politici, che perseguono lo spezzatino della Libia ma non lo dicono, si leva puntualmente il coro di coloro che approvano questa strategia, anzi la ritengono saggia. Di solito citano il caso dei Balcani come esempio riuscito di partizione lungo linee etniche. Riuscito? Oggi nei Balcani ci sono 13 mila soldati Onu (di cui 579 italiani), in Kosovo sono di stanza 16 mila soldati (di 34 Paesi) della missione Kfor (Kosovo Force) della Nato e, sempre in Kosovo, è stata costruita la base di Camp Bondsteel, uno delle più grandi tra quelle dell’esercito americano all’estero, capace di ospitare fino a 7 mila soldati. Che cosa pensate che succederebbe se questi presidi militari venissero ritirati? Credete che la strategia dello spezzatino resisterebbe? E poi perché i teorici di queste spartizioni non citano mai il caso della divisione tra India e Pakistan nel 1947, con un milione di morti subito, 70 anni di tensioni e di scontri in seguito e due apparati nucleari a fronteggiarsi?
Inoltre: davvero pensiamo di mandare, domani, decine di migliaia di soldati delle più varie provenienze a controllare che lo spezzatino in Libia stia in piedi? Per quanti anni li terremo laggiù? Siamo convinti che le tribù resteranno tranquille? Per non parlare dei movimenti terroristici di tutta l’Africa? È questa la strategia? E quanti morti nostri e loro abbiamo messo in bilancio?
Tutte queste teorie spartitorie hanno in realtà un solo obiettivo: rendere più facile il ritorno alla politica dei protettorati e dei mandati vecchia di un secolo. Ma nel frattempo è passato appunto un secolo e la strategia non funziona più. Riusciamo a rendere obsoleta la vecchia teoria di Marx: la storia è dramma, quando si ripete diventa farsa. Non la ripetiamo, rendendola però ancor più drammatica.

FULVIO SCAGLIONE...SIGONELLA...

SIGONELLA (E NON SOLO) TRA USA E ITALIA

sigonellaIl presidente Mattarella con Barack Obama alla Casa Bianca.
Avere amici grandi e grossi è spesso un vantaggio. A patto di superare con agilità i momenti in cui la mole dell’amico fa cadere il vaso della nonna o sfonda la poltrona buona del salotto. Adesso, però, l’amicizia con gli Stati Uniti ha messo a rischio anche la disinvoltura con le patate bollenti del premier Matteo Renzi. Non è facile digerire in poche ore che nel periodo 2008-2011 il Governo italiano, nella persona del primo ministro Silvio Berlusconi, fosse spiato dai servizi di sicurezza americani, che il Wall Street Journalfaccia sapere agli italiani che Sigonella sarà usata come base per attacchi armati dei droni Usa sulla Libia, che la Corte europea dei diritti dell’uomo condanni l’Italia (unico Paese a subire l’onta dopo la Macedonia) per aver violato la Convenzione europea avendo apposto il segreto di Stato con quattro Governi e non avendo chiesto con sei ministri della Giustizia l’estradizione degli agenti della Cia che nel 2013 rapirono, portarono in Egitto e fecero torturare Abu Omar, l’imam egiziano estremista che operava a Milano ed era indagato per terrorismo internazionale.
Di tutto un po’, insomma. Con un carico di suggestioni che magari incidono poco sui rapporti diplomatici ma molto sui sentimenti e sull’orgoglio. Sigonella è la base in cui, nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985, i militari italiani impedirono alle forze speciali Usa di portarsi via i terroristi palestinesi che avevano attaccato la nave “Achille Lauro” e ucciso un cittadino americano. E poi, per gli altri casi, la recente trasferta del presidente Mattarella negli Usa, il suo incontro con Barack Obama, la grazia concessa solo qualche giorno fa a due degli agenti Cia che rapirono Abu Omar…

Sigonella e la guerra dei droni

Renzi ha reagito convocando l’ambasciatore americano John Phillips per avere, sulla vicenda delle intercettazioni ai danni dell’intercettatissimo Berlusconi, quei “chiarimenti” che avrà solo dal punto di vista formale. La realtà è una e non cambierà: gli Usa spiano tutto e tutti, anche chi scrive queste note e chi le legge, e continueranno a farlo. Berlusconi è solo uno di una lunga lista che comprende la Merkel, Sarkozy, Netanyahu e persino quel brav’uomo di Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu. Tutti hanno protestato con l’aria stanca di chi sa che è inutile farlo, pronti ovviamente ad ascoltare le telefonate altrui appena se ne presentasse la ragione e l’occasione. Se i servizi segreti spiassero solo i nemici avrebbero chiuso bottega da tempo.
Più serie, in una normale dialettica tra alleati, le altre due questioni. Sigonella : per quanto fatta passare come “pulita” e “mirata”, la guerra dei droni è il suo esatto contrario. L’Ong inglese Reprieve ha studiato gli esiti di una lunga serie di attacchi, e ha calcolato che per ogni terrorista colpito i droni uccidono altre 28 persone, tra cui donne e bambini. Renzi ha fatto sapere che i voli da Sigonella saranno autorizzati “caso per caso”, in base “all’evidenza che ci sono potenziali attentatori che si stanno preparando”. Ma la sostanza non cambia.
Il caso Abu Omar, poi, a dispetto della colpevolezza dell’imam che fu infine condannato a 6 anni, ci rimanda a una stagione, quella delle extraordinary renditionsdi cui c’è poco da esser fieri. Sistemi di lotta al terrorismo che non hanno funzionato, peraltro, visto che da allora attentati e vittime sono sempre aumentati.
Detto questo la crisi, se crisi c’è, verrà presto composta. Il rapporto tra Usa e Italia è solido per definizione e tradizione, e la gerarchia chiara. In più, ora ci lega la reciproca necessità. Con il Nord Africa in subbuglio e l’Isis in Libia grazie anche ai pasticci europei, l’Italia è una postazione preziosa per gli Usa: a noi l’onere di non farci usare solo come rampa di lancio. Ma anche all’Italia serve, eccome, l’appoggio americano. Non sembra che il nostro Paese trovi troppo ascolto presso molti partner europei. E per sedersi a certi tavoli, la spinta di un amico grande e grosso serve davvero. È l’ennesimo caso in cui bisognerà riuscire a comporre la necessità e l’onore. L’una non senza l’altro.

FULVIO SCAGLIONE...UCRAINA

POROSHENKO, A COSA SERVE LA SUA UCRAINA

poroshenkoIl presidente ucraino Poroshenko (a destra) con il premier Yatsenyuk.
Se non fosse che in Occidente e altrove tanti ci credono, e soprattutto che in Ucraina tanti ci muoiono, ci sarebbe da farsi una risata a sentir definire il Paese dei Poroshenko il teatro di una battaglia per la libertà, come fanno senza paura certi giornaloni nostrani. Certo, bisognerebbe spazzar via il cumulo di false nozioni che sono state riversate su di noi all’epoca di Maidan e del rivolgimento anti-Yanukovich. Per esempio, era assolutamente impossibile, allora, sostenere l’evidenza di un Paese storicamente diviso tra un Est russofono e russofilo e un Ovest nazionalista ed europeista, tra un Est storicamente consegnato all’industria pesante (miniere, impianti metallurgici) e un Ovest assai più interessato all’agricoltura d’avanguardia e ai servizi.
Adesso, lo dicono con serenità anche i giornali più mainstream del mondo, tipo l’Economist, che va alla ricerca di qualche motivo d’ottimismo per Poroshenko & C. e nota che, nel Paese in cui il Pil è crollato del 12% nel 2015 (dopo il meno 7% del 2014) e la moneta ha perso il 70% del valore, la parte Ovest tutto sommato se la cava. L’articolista conclude: “Est e Ovest sono due mondi diversi e questo difficilmente viene fuori quando si parla di Ucraina”. Meglio tardi che mai.

Poroshenko e le dimissioni

Ma non è nemmeno la situazione economica il cuore della questione, anche perché l’Ucraina di Poroshenko può essere mantenuta all’infinito in questo stato di semi-coma indotto. Basta che il Fondo Monetario Internazionale elargisca gli 11 miliardi promessi entro il 2019 (dopo gli 11 già versati nel 2014) e che i Paesi creditori rinuncino alle somme loro dovute (il 20% del debito estero ucraino è già stato cancellato). Il resto lo farà lo spirito di sacrificio degli ucraini. Quello che è sotto gli occhi di tutti è che qui la libertà c’entra poco: l’Ucraina è solo passata da un regime impresentabile e inefficiente fedele a Mosca a un regime impresentabile e inefficiente fedele a Washington.
Un regime, quello attuale, in cui il presidente Poroshenko chiede al procuratore generale di dimettersi perché non persegue la corruzione; al primo ministro Yatsenyuk (peraltro inseguito lui stesso da accuse di corruzione) di andarsene perché non cava un ragno dal buco. Un regime in cui il ministro dello Sviluppo economico, Aivaras Abromavicius, un lituano diventato ucraino due ore prima di diventare ministro, si dimette in polemica col moralizzatore Poroshenko dicendo: ““Io e i miei collaboratori non … vogliamo essere lo schermo che nasconde la corruzione, o dei pupazzi in mano a coloro che vogliono prendere il controllo dei fondi pubblici, come si faceva coi governi precedenti”. Un regime in cui il ministro delle Finanze, Natalia Jaresko, è un’americana (ovviamente fornita di passaporto ucraino appena prima di diventare ministro) che lavorava al Dipartimento di Stato Usa.
Ed è proprio qui il punto. Chi voglia rileggere La grande scacchiera, il libro pubblicato nel 1989 da Zbigniew Brzezinski, esule polacco e segretario di Stato con il presidente Carter, trova nero su bianco il senso dell’Ucraina di Poroshenko (e per contrasto anche quello dell’Ucraina di Yanukovich). Per gli Usa, scrive Brzezinski, “il premio geopolitico più importante è rappresentato dall’Eurasia”. Occorre, quindi, “un coinvolgimento americano attivo, mirato e determinato, soprattutto con i tedeschi, per definire la portata dell’Europa e, quindi, affrontare questioni scottanti come la posizione finale delle Repubbliche baltiche e dell’Ucraina”. Obiettivo? “Rafforzare la testa di ponte americana sul continente euroasiatico”. Utili strumenti, sempre secondo Brzezinski:  l’allargamento della Ue al maggior numero di Paesi ex Est e l’allargamento della Nato il più possibile verso Est.
A questo serve, dunque, l’Ucraina di Poroshenko. Così come a impedirlo serviva l’Ucraina di Yanukovich. È certo legittimo preferire l’una o l’altra. Un po’ meno far credere che alla base di certi eventi ci sia la voglia di seminare gratis libertà per tutti.