di Michele Ainis
Non ci sono più dubbi: è in corso una ribellione contro i gruppi dirigenti che da vent'anni occupano le stesse poltrone. Perché il ricambio, in democrazia, non è un optional
(21 maggio 2012)
Federico Pizzarotti Federico PizzarottiPer una volta, tutti d'accordo: le amministrative hanno dato l'estrema unzione al sistema dei partiti, sicché alle prossime politiche suoneranno le campane a morto. A meno che i partiti non riescano a rimandare il funerale, recuperando crediti e consensi attraverso una sfilza di riforme, durante quest'ultimo scorcio della legislatura. A cominciare dall'autoriforma: leggi sul finanziamento pubblico, sulla democrazia interna dei partiti, sulle regole del gioco elettorale.
Giusto? No, sbagliato. Non è questa la prima domanda che pronunziano in coro gli italiani. E' una domanda più esigente, più inclemente: via tutti. Via i leader con la loro corte dei miracoli, via i gruppi dirigenti, via i parlamentari con cinque legislature sul groppone, via i funzionari stipendiati. Gli elettori non si ribellano ai partiti, bensì agli uomini di partito. Perché hanno trasformato la politica in una professione fin troppo redditizia. Perché in questi ultimi vent'anni hanno governato a turno, col risultato di sbatterci sul lastrico. E infine perché stanno sempre lì, inchiodati alla loro poltrona di broccato. Nella seconda Repubblica sono cambiate più volte le sigle dei partiti, ma le facce no, quelle sono rimaste sempre uguali.
Da qui il fresco successo dei grillini, che non dipende certo dal carisma del loro portavoce nazionale. Se fosse questo il punto, se bastasse un comico o un attore per ottenere il pieno nelle urne, allora alle prossime elezioni dovremmo assistere a una sfida tra Grillo e Celentano, con Fiorello a incarnare il terzo polo. E invece no, ci sarà sempre una destra contrapposta alla sinistra, ci saranno cattolici, socialisti, liberali. Ma vincerà chi saprà intercettare questa voglia di scegliere persone qualunque, normali, senza un passato politico alle spalle. E infatti, chi sono i grillini? Pizzarotti, che ha sbancato Parma, è project manager presso un istituto bancario. A Genova, Putti lavora come educatore in una cooperativa sociale. A Palermo si è candidato Nuti, analista di processi aziendali in una società di telecomunicazioni. Ad Alessandria correva Malerba, borsista alla Asl.
Insomma, una rivoluzione. Che promette di ghigliottinare se non le teste, le carriere. Quelle dei professionisti del potere, dei politici di lungo corso. Ovvio che non ci stia Gasparri, che Rutelli inarchi il sopracciglio, che D'Alema faccia vibrare il suo baffetto. Anche i più giovani, però, sono in imbarazzo.
E' nuovo Matteo Renzi, in politica dal 1996? Sono nuovi Citati e Serracchiani? E Alfano, l'enfant prodige del Pdl, parlamentare dal 2001? Eppure sotto questa furia iconoclasta c'è un'energia vivificante, la stessa che 25 secoli fa accese il fuoco della democrazia. Perché in democrazia si governa e si viene governati a turno, diceva Aristotele (Politica, 1317b). Dunque ogni ufficio pubblico elettivo è sempre temporaneo; non deve trasformarsi in un mestiere; e dopo averlo svolto, torni cittadino.
Faremmo molto male a definire "antipolitica" quest'istanza di rinnovamento, di ricambio d'uomini e d'idee. E' "superpolitica", piuttosto. Ma concepisce la politica come un servizio reso agli altri, come una parentesi nel proprio percorso esistenziale. E non è affatto vero che l'impegno politico reclami un'abilità speciale, come quella dell'ingegnere o del chirurgo. Semmai è vero l'opposto: meglio che siano gli inesperti a fare un paio di giri in Parlamento, dopo tutti i danni che ci hanno procurato i cosiddetti esperti. D'altronde questa stessa regola vale per Obama: due mandati e basta. Se in Italia ci fosse un altro Obama, potremmo concedergliene anche tre. Ma con la fauna politica da cui siamo assediati, un mandato è pure troppo.
michele.ainis@uniroma3.it
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