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giovedì 4 luglio 2013

EGITTO...

L’immobilismo di Obama in Egitto è un mito da sfatare

di Luca Gambardella  LIMES
Per sanare un'economia allo stremo il presidente Morsi batte cassa e tratta con l'Fmi un prestito che il popolo non vuole. Sullo sfondo, un equilibrio regionale che gli Usa vogliono preservare.


[Carta di Laura Canali]
Comprare il pane, pagare le tasse e il gasolio per l’auto. In Egitto la fame di diritti civili e democrazia si ritrova a fare i conti con le spese quotidiane. 

I numeri sono eloquenti. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) per quest’anno ha rivisto al rialzo l’inflazione al 10,9%, il picco più elevato dal 2010, mentre il tasso di povertà riferito al biennio 2010-2011 ammonta al 25,5%. Ma nelle campagne il dato sale impietoso al 69%. Nel secondo semestre dello scorso anno, 4 giovani su 5 erano senza lavoro. Dallo scorso novembre i prezzi dei carburanti sono più che raddoppiati e anche il gas per la cucina è aumentato per la prima volta dal 1993. 

È eloquente anche Mohammad, 41 anni, commerciante del Cairo: «Qui tutti parlano di diritti civili, soprattutto i partiti di opposizione, ma nessuno mi dice dove trovare i soldi per la cena». 

Eppure i dati più recenti pubblicati dal governo dicono che i salari sono aumentatiin media del 20% su base settimanale. «Ma questo dato è distorto», mi dice Rashad Abdo, docente di Economia all’Università del Cairo. «Intanto non si capisce se queste cifre si riferiscano ai salari netti o lordi. E poi danno un’idea falsata della realtà perché mentre i dipendenti pubblici hanno avuto un aumento salariale dell’80% dal 2011 ad oggi, quelli del settore privato sono in diminuzione dello 0,5%. E la gran parte dei 27 milioni di egiziani che compongono la forza lavoro nazionale è impiegata nel privato. Mentre l’inflazione continua ad aumentare».

Un dato economico allarmante che negli ultimi mesi ha costretto il presidente Morsi a girare il mondo in lungo e in largo alla ricerca della liquidità necessaria per far respirare le casse dello Stato. L’emergenza assoluta è la mancanza di valuta estera che sta mettendo in pericolo le importazioni. 

Poco importa se quei soldi vengano da altri paesi arabi piuttosto che dagli Stati Uniti; lo scorso aprile, nel giro di una sola settimana, il Qatar ha acquistato titoli di stato egiziani per 3 miliardi di dollari mentre la Libia ha accordato un prestito di altri 2 miliardi. 

Ma al Cairo sono in molti a pensare che, con Mubarak al potere, l’immagine del paese non sarebbe stata così svilita da ingenti debiti con l’estero per risolvere gli attuali problemi economici. Difficile allora che i prestiti ottenuti fino a oggi riescano a bloccare il calo di consensi che sta colpendo Morsi negli ultimi mesi.

Si batte cassa quindi. Dal Golfo Persico a Mosca, passando per Ankara e Tripoli. Ma le vere risposte che il governo della “Fratellanza” attende con ansia vengono da Occidente, dall'Fmi, deus ex machina delle sorti egiziane. Da mesi la trattativa tra il Fondo e il Cairo si trascina senza giungere alla fatidica concessione di un prestito da 4,8 miliardi di dollari. 

Una cifra modesta se paragonata alla somme ben superiori fin qui elargite, ad esempio, dal Qatar. Il professor Abdo chiarisce: «Si stima che la sottoscrizione dell’accordo con l’Fmi aprirebbe la strada ad ulteriori 14,5 miliardi di dollari che verrebbero messi a disposizione da altri paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Il prestito del Fondo è una cifra ridicola di per sé. È piuttosto un nullaosta per ottenere altri prestiti futuri, provando al mondo che l’Egitto sarà, un giorno, solvibile». 

«Prima di tutto, il prestito non risolverà nulla,  anzi peggiorerà l’indebitamento verso l’estero. Secondo, nessuno ha letto una sola riga delle condizioni che l'Fmi ha sottoposto al governo per concludere il prestito» rivela Ahmed El Naggar, capo economista del Centro per gli studi politico-strategici al Ahram, uno degli istituti di ricerca politica ed economica più importanti del Medio Oriente. 

In effetti l’unico dato certo è che l'Fmi ha chiesto riforme fiscali, alcune delle quali traumatiche, come l’aumento delle imposte e il taglio dei sussidi finora garantiti dallo Stato per le fonti energetiche, gas e benzina in primis. Il tutto per rientrare da un deficit di bilancio che oscilla attorno al 12%. Misure osteggiate proprio dalle classi medio-basse, già oberate da tasse, stipendi da fame e disoccupazione. 

«Se quell’accordo verrà concluso i prezzi dei beni di consumo essenziali aumenteranno ancora e l’Egitto diventerà un inferno», ammette il professor Abdo, seduto su una poltrona rivestita in damasco del suo appartamento nella zona residenziale di Zamalek. «Guardi il Cairo: anche da un punto di vista urbanistico, a poche centinaia di metri da qui c’è il quartiere operaio di Bulaq. Dove crede che verrà a cercare il pane quella povera gente?».

Eppure le alternative non mancherebbero, come spiega El-Naggar. «Innanzitutto occorrerebbe eliminare quei sussidi che oggi sono garantiti alle grandi industrie e alle multinazionali. Abbiamo stimato che otterremmo 27 miliardi di sterline egiziane da destinare alle classi più basse. Basterebbe questo per rinunciare al prestito. Non ne risentirebbero nemmeno i prezzi dei prodotti: sono già più alti di quelli internazionali e un aumento ulteriore incoraggerebbe le importazioni e quindi la concorrenza sul mercato interno. Non lo farebbero mai».

Altro punto è quello dello sfruttamento delle enormi risorse naturali di cui dispone l’Egitto. «È dal 1956 che non vengono adeguati i prezzi dei materiali grezzi a quelli dei mercati internazionali. Solo con questo incasseremmo tra i 7 e i 25 miliardi di sterline egiziane all’anno. Per non parlare dei prezzi del gas che esportiamo in Spagna e in altri paesi europei, ad oggi scarsamente concorrenziali. Infine bisogna rivedere gli interessi sui prestiti che le banche, per lo più pubbliche, assicurano allo Stato. Oggi la pubblica amministrazione incassa prestiti a tassi che oscillano tra il 13 e il 17% mentre un privato cittadino arriva a dover pagare interessi che raggiungono anche il 9%. Un’enormità».

Ma dietro i prestiti internazionali ci sono soprattutto interessi politici. Il Qatar è stato finora il principale finanziatore del governo dei Fratelli musulmani. La caduta di Mubarak è stata un affare per Doha che è riuscita a porre fine al gelo diplomatico che esisteva tra i due paesi quando al potere c’era il raìs, acerrimo nemico dell’iperattivismo del piccolo emirato. E poco conta se il Cairo non sarà in grado di restituire il denaro prestato. 

«I miliardi che il Qatar continua a versare nelle casse dei Fratelli non sono tracciabili. Non esistono documenti che dicano dove vanno a finire quei finanziamenti» rivela El Naggar. «Gran parte di quei soldi finisce nel bilancio degli Ikhwan (i Fratelli musulmani, ndr), i cui dati sono inaccessibili al pubblico». 

Dietro il Qatar c’è Washington, interessata a preservare gli equilibri regionali e quindi il trattato di pace tra Egitto e Israele. «Qatar e Fmi sono solo strumenti nelle mani degli Stati Uniti per non modificare lo status quo nella regione. A nessuno interessa un durevole sviluppo economico dell’Egitto; vogliono che in futuro abbiamo ancora bisogno del loro aiuto» continua il professor Abdo. «Ad Obama si imputa una politica troppo attendista verso il Medio Oriente. Forse. Non ricordo con esattezza quanti viaggi verso Washington abbiano fatto i leader dei Fratelli musulmani nei mesi precedenti alle elezioni del 2012. Ma tutti sanno che furono tanti. Troppi».

Il presidente Morsi, intanto, continua a prendere tempo, conscio che la ratifica dell’accordo con l'Fmi potrebbe rivelarsi letale e accendere le piazze innescando una nuova ondata di rivolte. I consensi sono in calo ma la trattativa, secondo le previsioni, dovrebbe chiudersi a breve, con ogni probabilità prima delle prossime elezioni legislative, posticipate all'autunno. Dal canto suo, l’amministrazione statunitense resta in attesa, cosciente che anche in seno allo stesso Fmi esistono forti dubbi sulle capacità del governo egiziano di avviare le riforme richieste e di saldare il debito in futuro.

«Ma Washington vuole garantire che in Egitto si crei un mercato capitalistico aperto, dove poter fare buoni affari e favorire le proprie multinazionali» conclude Abdo. «Che il 40% degli egiziani vivano con circa due dollari al giorno, agli Usa non interessa. Nemmeno il rischio di una guerra civile li preoccupa più di tanto. Se Morsi fallisse nel garantire le riforme che gli interessano, sanno che troverebbero qualcun altro pronto a tutelare i loro interessi». 

Forse l’immobilismo dell’amministrazione Obama in Egitto è un mito da sfatare.


(11/06/2013)

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