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mercoledì 8 agosto 2012

MICHELE AINIS...



L’Italia è il Paese delle deroghe: le leggi nascono con l’eccezione
C’è un sole spento sopra il nostro orizzonte collettivo: l’eguaglianza, e perciò l’unità degli italiani. Ne avremmo più che mai bisogno, mentre c’è da remare tutti insieme per uscire dalla secca. Abbiamo appena scoperto, viceversa, che i poveri sono ormai 8,1 milioni; che il 10 per 100 degli italiani fortunati ha guadagni oltre 10 volte superiori rispetto al 10 per 100 dei più disgraziati; che il patrimonio delle 10 persone più ricche d’Italia equivale al patrimonio complessivo di 3 milioni di cittadini poveri. Questa disparità di trattamento non mette in crisi soltanto la coesione del popolo italiano. Ne affossa l’economia, lo sviluppo produttivo, in base a una regola non scritta che vale sempre e in ogni continente. Difatti sia la Grande depressione del 1929, sia la Grande recessione che infuria dal 2008 sono state precedute da un forte e prolungato aumento della diseguaglianza nei redditi. È accaduto negli Stati Uniti, lì dove la miccia ha preso fuoco: nel 2007 l’1 per 100 più ricco degli americani possedeva il 34 per 100 della ricchezza nazionale, un record mai toccato dal 1928, l’anno che precedette per l’appunto il crollo di Wall Street. È accaduto e accade qui in Italia, e non a caso l’Italia è finita nell’occhio del ciclone.

Questo Paese di figli e figliastri si riflette come in uno specchio nel gran libro delle leggi. E la sua proiezione normativa ha uno specifico nome di battesimo: deroga. Ossia l’eccezione per legge alla regola stabilita da altra legge. Dovrebbe quindi trattarsi d’un fenomeno saltuario e marginale, giustificato da particolari circostanze.

L’eccezione è tale se si traduce anche in un’eccezione statistica. Dovremmo riscontrarvi inoltre il requisito della temporaneità, giacché se l’eccezione ambisse a una durata illimitata diverrebbe regola a sua volta. Succede tuttavia il contrario. L’ordinamento giuridico italiano è infarcito come una torta di norme speciali, straordinarie, eccezionali. Norme derogatorie, per l’appunto. Tutte provvisorie, nelle intenzioni dichiarate dal legislatore; tutte viceversa permanenti, nella realtà legislativa. La prova? Basta consultare qualsiasi banca dati. Fissiamo l’occhio su Leggi d’Italia: scopriamo così che il termine «deroga», insieme ai suoi derivati («derogabile», «derogato» e simili), figura per la bellezza di 5816 volte negli atti legislativi dello Stato; e addirittura per 7334 volte nelle leggi regionali.

Considerando pure i regolamenti e le norme secondarie, il totale fa 19.445: tombola! Ma non è tutto, perché dobbiamo aggiungervi altresì il termine «eccezione» nonché i suoi derivati, che occhieggia per 7909 volte nella sola regionale, per 24.386 volte come dato complessivo. E restano infine da sommare i casi in cui figura questa o quell’altra locuzione del medesimo tenore. Per esempio «tranne», «eccetto», «a esclusione di»: altre 19.363 ricorrenze, con una stima approssimata per difetto. Il risultato avrebbe fatto saltare sulla sedia perfino Stendhal, che già nel 1829, nelle sue Promenades dans Rome, aveva osservato come in Italia la gran parte degli atti di governo consistesse in altrettante deroghe a una regola. Due secoli più tardi, la regola non esiste più: sommersa, annegata, soffocata da 63.194 deroghe. Sicché in ultimo ogni categoria indossa un vestito normativo diverso da quello cucito sulle spalle della categoria gemella. Non c’è più un unico sarto, la legge generale è ormai un ricordo. Il nostro diritto è diventato capriccioso e instabile, alluvionato da regolette minute e di dettaglio; quindi sostanzialmente impenetrabile, un oggetto misterioso per gli stessi addetti ai lavori. Come nell’antica Cina, dove le leggi penali erano segrete, finché nel VI secolo avanti Cristo invalse l'uso di pubblicarle su vasi di ferro. Oggi come ieri, è infatti questo il costo d’un ordinamento frantumato in mille schegge: l’oscurità della legislazione, dunque l’imprevedibilità delle sue applicazioni amministrative o giudiziarie, dunque l’insicurezza dei rapporti giuridici, dunque la prepotenza dei più forti, perché l’ombrello della legge non è più in grado di riparare i deboli. E allora le 63 mila deroghe che abbiamo messo in circolo non mandano in malora solo il principio d’eguaglianza. Hanno svuotato inoltre la cultura dei diritti. O forse l’idea stessa di diritto, della regola che distribuisce i torti e le ragioni.

Michele Ainis
michele.ainis@uniroma3.it

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