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domenica 27 gennaio 2013

venerdì 25 gennaio 2013

ALESSANDRO PROFUMO ...

In pratica il caro Profumo risolve tutto dicendo restituiremo il prestito...soldi che hanno prestato i cittadini con l'IMU ...è incredibile e vergognoso.

Mucchetti parla gia' da politico del PD e attacca Beppe Grillo ...
In pratica il caro Profumo risolve tutto dicendo restituiremo il prestito...soldi che hanno prestato i cittadini con l'IMU ...è incredibile e vergognoso.

Mucchetti  parla gia' da politico del PD e attacca  Beppe Grillo ...

BEPPE GRILLO

Beppe Grillo all'assemblea del Monte dei Paschi di Siena

Intervento di Beppe Grillo al Monte dei Paschi di Siena
(10:12)
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>>> Oggi, 25 gennaio sono a Livorno piazza XX settembre ore 17 e a Firenze piazza Santissima Annunziata ore 21. Domani 26 gennaio sarò a Ravenna, ore 12.30, Cesena, Giardini Pubblici, ore 15.30 e a Rimini, piazza Cavour, ore 19.30. Seguite le dirette su La Cosa! >>>
Intervento di Beppe Grillo all'assemblea degli azionisti del Monte dei Paschi di Siena
"Noto innanzitutto l’atmosfera. Se parlate con l’azionista è devastato per il suo investimento, si lamenta e è furioso. Poi vedo una ostentata calma della presidenza, di questi signori che non conosco, presumo che ci sia un notaio. Ostentate una calma straordinaria.
Io vengo da Genova, come il dottor Profumo, conosco il dottor Profumo, la vita che ha fatto, era un ex casellante, lavorava di sera, si è fatto da solo, un uomo molto importante, però è un uomo completamente non adatto a gestire questa situazione perché è indagato di frode fiscale. Questa banca era una banca florida, era una banca straordinaria, nel ‘95 è stata diciamo privatizzata, queste parole che ormai non hanno più assolutamente il significato che avevano, è stati politicizzata, è entrato un partito dentro con una fondazione, nominata da chi sapete benissimo comuni, regione, provincia, sono entrati questi del PD, ex DS, che ha governato questa regione per 40 anni.
Da lì è stato compiuto, dall’inizio, lo scempio totale di questa banca, è stata privatizzata, una Spa, portata in borsa, fondazione, ha iniziato a allargare al mercato.
Quando non si hanno i concetti si parla del mercato, ma chi è il mercato? Il mercato che gioisce? Il mercato che resta sbigottito? Che perde? Il mercato sono i soliti squali il mercato, che entrano nelle spa, nelle società, e parliamo di Caltagirone, Gnutti, sono sempre gli stessi. Questi entrano, investono e vogliono i dividendi, per dare i dividendi questi signori hanno disintegrato una delle più belle banche del mondo. Si sono venduti tutto! I loro capitali, le banche, i palazzi a Roma, le tenute, la Cassa di Risparmio di Prato, si sono venduti i gioielli e hanno piano piano spolpato una azienda che prima della privatizzazione del ‘95 aveva un valore di 20 miliardi di Euro, adesso siamo sotto i due, forse.
Poi che cosa è successo? Che si è presa la mano, le vendite continuavano e poi Antonveneta. Sapete meglio di me, io non voglio fare il professore, io faccio un altro mestiere, però Antonveneta, costa tre e si paga 10, si prende il passivo di una banca, lo si incamera dentro la banca. Queste operazioni fanno sì che una banca come questa scompaia piano piano.
Ora io sono venuto a dirvi una cosa: lei (indirizzandosi a Profumo) come Presidente la prima cosa che doveva fare era aprire una inchiesta, perché qui siamo in un caso che va oltre la Parmalat. Io ero stato chiamato alla Parmalat proprio perché due anni prima che fallisse andavo negli stadi, facevo gli spettacoli facevo vedere il bilancio e dicevo è una azienda fallita, lo sapevano tutti che era fallita la Parmalat. Il disastro di questa banca lo sapevano tutti, i media, i giornalisti, gente della finanza. Si doveva aprire una commissione, chiamare tutti i segretari del Partito Democratico dal ‘95 a oggi e far loro delle domande, perché qui abbiamo un buco di 14 miliardi di Euro, 28 mila miliardi di lire, oltre la Parmalat.
Presidente Profumo: “dott. Grillo poi mi dirà dove ha recuperato il numero dei 14 miliardi di Euro”
Beppe Grillo: “Va bene, però mi faccia andare avanti. Abbiamo un buco di 14 miliardi di Euro…”
em>Presidente Profumo: “No, non abbiamo un buco per precisione, non abbiamo assolutamente questo buco…”
Beppe Grillo: “E va beh, ma ora vediamo, perché il problema è che mancano, c’è un buco notevole, se non saranno 14 saranno 13 e 8. C’è anche una domanda, chi ha controllato? Chi doveva controllare queste cose? Siamo sempre alle solite! La Banca di Italia, chi c’era Draghi?! Chi doveva controllare? La signora Tarantola, capo della vigilanza di Banca Italia? Chi ha controllato, la Consob? Tutta gente che fa un altro mestiere fuorché controllare! Qui siamo veramente a uno dei buchi più grossi che ci siano oggi in Italia e credo in Europa. Abbiamo bisogno di risposte e la risposta è questo signore che viene con la referenza che abbiamo detto prima, che va in giro a aprire cassaforti, a vedere dei derivati e a mettere nel patibolo questo Mussari. Io ci ho parlato una volta, non sa nulla di banche, ma non è il suo compito, non sa nulla di banche…
APPLAUSO DELL'AULA
Beppe Grillo: “Immaginate che non sa neanche fare un bonifico e sentirlo parlare di derivati, che nessuno sa che cosa sono. Investono in derivati, ma se andate a vedere la “curva di Swensen” vedrete che sono un algoritmo, formule, da malati di mente. Infatti Swensen, quello che ha inventato i derivati, aveva ha aperto una sua società, ha investito in derivati e è fallito in 6 mesi, pensate un po’ se si può ancora fare questo!
Poi deve essere recuperato il deficit, una parte del deficit. Che i tre miliardi virgola 9, debbano essere messi dal popolo italiano mi sembra una delle più grosse ingiustizie. Le aziende falliscono, tutte le aziende falliscono, la legge di mercato dice questo, se vai male, se sei gestito male, fallisci. Se mancano i soldi qualcuno li ha presi, qui siamo in una distorsione dove un partito è diventato una banca e una banca è diventato un partito. Questi soldi devono essere tirati fuori, ma non dai tre virgola 9 miliardi presi dai cittadini italiani, dall’Imu, dalle persone che sono fuori a protestare.... Questa è una azienda che dovrà licenziare migliaia di persone tra breve, è una azienda che dovrà riscattarsi in qualche modo, ma non si riscatterà avendo una gestione come questa.
Quindi io vi auguro di cercare di resistere a questa cosa e io voglio, vorrei, come azionista, come cittadino, come persona, fare chiarezza, perché questi soldi non ci sono. Chi li ha presi? Allora li mettiamo sul banco degli imputati e devono essere processati dall’opinione pubblica, dai risparmiatori e dai lavoratori, che non devono rimetterci una lira e neanche il posto di lavoro.
Io ho finito.
APPLAUSI DELL'AULA"

mercoledì 23 gennaio 2013

BEPPE GRILLO

Monti alla conquista dell'Europa

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>>> Oggi, 23 gennaio sono a Pomezia piazza Indipendenza ore 17 e a Latina piazza del Popolo, ore 21. Domani 24 gennaio sarò a Grosseto piazza Dante ore 17 e a Siena piazza del Mercato (Tartarugone), ore 21. Seguite le dirette su La Cosa! <<<
Il Financial Times, con un titolo che ricorda una celebre copertina dell'Economist su Berlusconi "Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy" ha pubblicato su Rigor Montis un articolo a firma di Wolfgang Munchau, uno dei suoi più importanti analisti economici, "Why Monti is not the right man to lead Italy (Perché Monti non è l'uomo giusto per guidare l'Italia)". Scrive Munchau: "La crisi economica in Italia sta crescendo. Ogni giorno vi sono notizie di peggioramento del credito, dell'aumento della disoccupazione, dei consumi, della produzione e della confidenza nella ripresa del business ... Monti non si è opposto a Angela Merkel. Non le ha detto che il continuo impegno dell'Italia avrebbe dovuto dipendere da una vera unione bancaria con capacità decisionali e depositi sufficienti; l'adozione di un eurobond; e una politica di espansione economica da parte di Berlino ... Monti ha promesso riforme ed è finito ad aumentare le tasse. Il suo governo ha tentato di introdurre modeste riforme strutturali ... La sua narrazione (fantastica, ndr) è che lui ha salvato l'Italia dall'orlo dell'abisso, o piuttosto da Silvio Berlusconi. La caduta dello spread ha alimentato la sua narrazione, ma molti italiani sanno che lo devono a un altro Mario - Draghi, presidente della BCE... Per Monti, la mia miglior previsione è che la Storia gli darà un ruolo simile a quello di Heinrich Bruning (*), il cancelliere tedesco dal 1930 al 1932. Anche Bruning era convinto al pari dell'establishment di allora, che non ci fosse alternativa all'austerità".
Il giorno seguente Rigor Montis, piccato, ha risposto con una lunga lettera al FT. Riporto alcune perle della sua intemerata in cui sin dal titolo appare la sua innata modestia "Italy has led reform in Europe as well as at home (L'Italia ha guidato le riforme in Europa oltre che a casa)"
1. L'Italia era vicina a essere espulsa dai mercati finanziari. Ridurre i bisogni finanziari era imperativo (durante il Governo Monti il nostro debito pubblico è aumentato di 100 miliardi, ha fatto peggio di Tremonti e i nostri titoli pubblici sono stati acquistati in prevalenza dalle nostre banche grazie al prestito ponte della BCE di gennaio/febbraio 2012 di 1.100 miliardi di euro al sistema bancario europeo, ndr) e poteva essere fatto solo aumentando le tasse (si doveva intervenire sul taglio delle spese, soprattutto quelle strutturali e non sull'aumento delle tasse e della fiscalità aumentando così la recessione, ndr)
2. Quello che ha fatto questo governo diminuendo i prezzi (l'inflazione è salita al 3% nel 2012, ndr) e creando più lavoro nel settore dei servizi è senza precedenti (per Bankitalia nel 2013 il tasso di disoccupazione aumenterà, arrivando a toccare il 12% nel 2014 e per l' ISTAT: la disoccupazione giovanile supera il 37%, ndr) per un periodo così breve e senza una reale maggioranza in Parlamento (sostenuto solo da Pdl, Pdmenoelle e Udc, ndr).
Belin, che vergogna. Monti ci è o ci fa? Datemi una risposta!

(*) In una situazione economica gravissima per la Germania, Bruning perseguì con determinazione, tramite decreti presidenziali in via d'urgenza, una politica di tagli di bilancio e di deflazione per alleviare il peso del debito estero connesso al pagamento delle riparazioni di guerra decise a Versailles. Per alcuni la sua politica provocò un grave aumento della disoccupazione, aggravò il disagio sociale e la condizione dei ceti medi, causò il massiccio spostamento dei medio-bassi verso l’estremismo populista-nazionalista di Adolf Hitler.

STAMINALI...

Staminali: naso paziente fatto ricrescere su braccio

Glielo avevano rimosso per un tumore, con le staminali potrebbe riavere un profilo normale entro un paio di mesi

23 gennaio, 16:06
A Londra un uomo a cui è stato necessario rimuovere il naso per un tumore ne sta per ricevere uno fatto crescere sul suo stesso braccio. Lo ha rivelato il programma della Bbc Focus, secondo cui i ricercatori dell'University College di Londra potrebbero ridare il profilo normale al paziente entro un paio di mesi. Il nuovo naso è stato fatto crescere a partire da un modello di vetro spruzzato di un materiale sintetico che ha creato una 'impalcatura' per le staminali del paziente.
Mentre in un bioreattore le cellule davano vita alla cartilagine del naso, i medici del team guidato da Alex Seifalian hanno creato uno spazio all'interno del braccio del paziente con un palloncino. Ora da circa due mesi il naso è stato piazzato al posto del pallone, e sta sviluppando nervi e capillari, oltre a ricoprirsi di pelle. Ancora un altro mese, ha spiegato il ricercatore, e sarà pronto per essere impiantato: "Il naso sarà esattamente uguale a quello perso dal paziente - ha sottolineato Seifalian - quello originale era un po' storto e gli abbiamo chiesto se lo voleva più dritto, ma lui ha detto di no".
Non è il primo caso di parti del corpo fatte crescere all'interno delle braccia, anche questo è l'unico caso di organo riprodotto 'da zero'. Lo scorso anno ad esempio alla Johns Hopkins university di Baltimora ad una donna è stato fatto crescere nell'avambraccio e poi trapiantato un orecchio, ma in questo caso l'organo era stato ricavato dalla cartilagine della costola.

domenica 20 gennaio 2013

LUCIO CARACCIOLO - LIMES

Quel che resta del colonialismo

di Lucio Caracciolo - LIMES
RUBRICA IL PUNTO Se sei stato un impero, come nel caso della Francia, il passato non passa mai. Parigi in Mali difende il proprio rango, memore della propria "missione civilizzatrice". La Françafrique è stata ripudiata a parole, ma nei fatti è ancora lì. [articolo pubblicato su la Repubblica il 17/01/2013]

L'Africanistan di Parigi


[Carta di Laura Canali]
Se sei stato un impero, non finisci mai di esserlo. Se poi eri l'impero francese, che all'alba della Seconda guerra mondiale si estendeva per 12 milioni e mezzo di chilometri quadrati (ben più dell'intera Europa, venticinque volte l'Esagono, inferiore solo al Commonwealth britannico), il passato non passa mai. Nel caso lo dimenticassimo, ce lo ricorda l'attualità.

Oggi l’élite delle forze armate tricolori si sta battendo nel cuore del Sahara/Sahel per impedire che alcune bande di terroristi s’impadroniscano di quel che resta del Mali, già Sudan francese. Siamo in piena ex Africa occidentale francese, enorme spazio coloniale che, insieme al corrispettivo territorio africano-equatoriale componeva fino a tre generazioni fa il sistema imperiale gestito da Parigi nel Continente nero, abbracciandone più di un terzo.

A ogni impero corrisponde un’ideologia. Da Napoleone in avanti, per la Francia si tratta(va) della «missione civilizzatrice». Non solo conquista di territori e sottomissione di popoli, a colorare di proprie tinte i planisferi. E neanche puro sfruttamento economico - la politica coloniale come figlia della politica industriale. Molto di più. Si tratta(va) di fertilizzare il mondo disseminandovi i valori universali della Francia rivoluzionaria. Come diceva Jules Ferry, che ai tempi della Terza Repubblica battezzò la scuola laica gratuita e obbligatoria, «le razze superiori hanno diritto di civilizzare le razze inferiori». (Quando François Hollande vorrà ricordare Ferry nel suo primo discorso pubblico, alle Tuileries, non mancherà di condannarne questo «errore morale e politico».) Solo gli Stati Uniti vorranno poi, con superiori mezzi, seguire un analogo percorso missionario, suscitando perciò una competizione squilibrata ma persistente con l’universalismo francese.

Sicché oggi deve costare molto all’Eliseo chiamare in soccorso la Casa Bianca per garantire le coperture satellitari, logistiche e di intelligence di cui il proprio corpo di spedizione in Mali non può disporre. Di più, il colonialismo francese non si fondava sulla geopolitica delle teste di ponte costiere, alla portoghese, né tantomeno sul dominio indiretto, all’inglese, ma sul principio dell’assimilazione. L’impero come estensione del territorio metropolitano, anche sotto il profilo amministrativo. Le classi dirigenti locali venivano (vengono) educate sui manuali e con le tecniche distillate nei laboratori del grandioso apparato statale centrato su Parigi e di lì irradiato nei dipartimenti, africani inclusi.

Dopo la strana vittoria del 1945 - e sotto la pressione degli Stati Uniti, che volevano concentrare tutte le energie occidentali nel contenimento dell’imperialismo sovietico - la Repubblica francese è costretta a cedere, pezzo per pezzo, il grosso dei suoi domini extraeuropei. Ne rimane oggi pallida traccia, sotto forma di regioni, dipartimenti e altre entità d’oltremare, da Mayotte alla Riunione, dalla Nuova Caledonia alla Polinesia, da Martinica alla Guyana. Ciò che contribuisce a difendere il rango mondiale della Francia, sigillato dal titolo di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dall’arsenale nucleare. Rango cui Parigi tiene moltissimo, anche per bilanciare la crescita della potenza tedesca in Europa.

Quanto all’Africa, dopo il lutto non ancora elaborato della guerra d’Algeria, la Francia ha saputo mantenervi una sfera d’influenza che ricomprende grosso modo le sue antiche terre imperiali. A fondarla contribuisce lo strumento linguistico-culturale, istituzionalizzato nella francofonia, per marcare il senso geopolitico della difesa dell’idioma nazionale. Insieme, un reticolo di relazioni politico-economiche, a lungo centrato sulla “cellula africana” dell’Eliseo, diretta fino a pochi anni fa da Jacques Foccart.


[Carta di Laura Canali]

È la Françafrique, termine divenuto peggiorativo per la penna di François-Xavier Verschave, che la denunciò nel 1998 come organizzazione criminale segreta incistata nelle alte sfere della politica e dell’economia transalpina. Basata sulla corruzione, sui rapporti personali con questo o quel dittatore/padrone (franco)africano, sugli interessi dei “campioni nazionali” dell’industria transalpina, specie nel settore energetico e minerario. Una macchina da soldi, infatti ribattezzata France-à-fric da giornalisti malevoli.

Sarkozy prima e Hollande poi hanno preso le distanze dalla Françafrique, ma chiunque voglia vederle ne trova ancora forti tracce nei territori africani già inglobati nell’impero tricolore. Vi restano anzitutto i privilegi della grande industria, che incarna interessi strategici irrinunciabili (per esempio, lo sfruttamento dell’uranio nigerino da parte di Areva, vitale per la produzione energetica nazionale).

Parigi non rinuncia al ruolo di gendarme nella “sua” Africa - anche oltre, come dimostra il caso libico. Nel Continente nero restano schierati in permanenza circa 7.500 soldati francesi. Nel solo teatro maliano, il ministero della Difesa prevede di impegnarne a breve 2.500, e forse non basteranno per evitare l’insabbiamento della missione antiterrorismo. Certo, l’epoca dell’“unilateralismo” è passata, oggi Parigi cerca (e talvolta non trova) il sostegno degli alleati occidentali e dei paesi africani più vicini alle zone di crisi.

Più che una scelta, il “multilateralismo” - ossia l’impiego di risorse altrui per fini propri, o almeno il tentativo di farlo - è una necessità. Alla fine, quel che conta è proteggere il rango dell’Esagono nel mondo, la grandezza della Francia. Anche per questo, nelle carte mentali dei decisori francesi la memoria dell’ex (?) impero campeggia vivissima.

Per approfondire: "La Francia senza Europa" | "Fronte del Sahara"
(17/01/2013)

TERREMOTO ALL'AQUILA...

L’Aquila, le finte lacrime dell'ex prefetto Iurato
davanti alle macerie e ai bimbi rimasti orfani

Inchiesta a Napoli, dalle intercettazioni emergono sconvolgenti rivelazioni sul comportamento dell’ex prefetto - FONTE QUI

L’AQUILA. Lacrime finte. E risate. L’ultimo tradimento agli aquilani arriva ancora da intercettazioni-choc. Stavolta a ridere non è un imprenditore senza scrupoli che pensa a come fare i soldi dopo il terremoto. È un prefetto della Repubblica che finge di commuoversi davanti al lutto, alle macerie, al dramma. Il telefono di Giovanna Maria Rita Iurato, già prefetto dell’Aquila ora interdetta dai pubblici uffici per decisione del gip del tribunale campano, all’epoca dei fatti era già sotto controllo nell’ambito di un’inchiesta su appalti e favori. «Una risata non giustificabile», che non si addice soprattutto a chi ricopre un ruolo istituzionale», scrivono i magistrati. La penosa vicenda è ripercorsa in un capitolo della richiesta di misure cautelari firmata dal procuratore aggiunto Rosario Cantelmo e dai pm della Dda Vincenzo D’Onofrio, Raffaello Falcone e Pierpaolo Filippelli. I magistrati ricordano che poco dopo la tragedia che mise in ginocchio il capoluogo abruzzese la Iurato «scoppiava a ridere ricordando come si era falsamente commossa davanti alle macerie e ai bimbi rimasti orfani». Un atteggiamento che viene fortemente stigmatizzato. I magistrati napoletani fanno riferimento alla telefonata tra la stessa Iurato e il prefetto Francesco Gratteri, intercettata il 28 maggio 2010.
«Commentando la sua prima giornata ufficiale», scrivono i pm, «nella città martoriata dal terremoto (definita dalla Iurato “una città inesistente, che non c’è”), scoppiava a ridere, ricordando come si era (falsamente) commossa davanti alle macerie e ai bambini rimasti orfani. Una risata non giustificabile dalle circostanze e dagli eventi tragici di quelle ore, che avrebbero imposto al rappresentante del governo di assumere comportamenti ben diversi e non certo (a proposito di cinismo) legati alla predisposizione di condotte e strumenti atti a prevenire o scongiurare indagini in corso».
Una lettura del tutto diversa viene fornita dai legali della Iurato, che respingono le accuse di insensibilità. «Nei due anni di presenza all’Aquila il prefetto Iurato ha dato ampia prova di attenzione, rispetto e grande senso di abnegazione nei confronti dei cittadini così duramente colpiti dalla tragedia del terremoto», affermano gli avvocati Claudio Botti e Renato Borzone.
«Appena metti piede in città, subito con una corona, vai a rendere omaggio ai ragazzi della casa dello studente». È il consiglio che la Iurato, appena trasferita, ricevette dal padre. È uno dei passaggi della conversazione tra la donna e Gratteri.
LE INTERCETTAZIONI.
Iurato: «Allora senti... sono andata... sono arrivata, subito mio padre, che è quello che mi dà i consigli, quelli più mirati...»
Gratteri: «Sì, lo so».
Iurato: «... perché è un uomo di mondo, saggio, dice: “...appena metti piede in città subito con una corona vai a rendere omaggio ai ragazzi della casa dello studente...». Gratteri: «Brava».
Iurato: «Eh, allora sono arrivata là, nonostante la mia... cosa che volevo... insomma essere compita... mi pigliai, mi caricai questa corona e la portai fino a ...».
Gratteri: «Ti mettesti a piangere... sicuramente!».
Iurato: «Mi misi a piangere».
Gratteri: «Ovviamente, non avevo dubbi (ride)».
Iurato: «E allora subito... subito... lì i giornali: “le lacrime del prefetto”».
Gratteri: «Non avevo dubbi (eh, eh, ride).
Iurato: «Ehhhhhhh (scoppia a ridere) i giornali : “le lacrime del prefetto”».
Gratteri: Non avevo dubbi (eh, eh ride).
Iurato: «Poi si sono avvicinati i giornalisti: “perché è venuta qua?”. Perché voglio cominciare da qui, dove la città si è fermata, perché voglio essere utile a questo territorio. Punto».
Gratteri: «Eh».
Iurato: «L’indomani conferenza stampa con tutti i giornalisti».
L’ARRIVO ALL’AQUILA. Il 26 maggio del 2010 la Iurato pianse davvero davanti alle telecamere e alle macchinette fotografiche della città. Scortata dai vertici di polizia e carabinieri e accolta dal sindaco Massimo Cialente e dal presidente della Provincia Antonio Del Corvo, il prefetto fece esattamente i passi suggeriti dal padre e riportati nella telefonata. Strinse mani, guardò negli occhi gli aquilani ancora provati dalla tragedia senza fine del terremoto. Poi rese l’omaggio alle giovani vittime della Casa dello Studente, deponendo un cuscino di fiori che lei stessa volle sistemare con le proprie mani davanti alla struttura distrutta. Proprio davanti alle foto e ai tanti messaggi lasciati sulle transenne, il neo prefetto non riuscì a trattenere le lacrime. Anche se non erano, a quanto si evince dalle intercettazioni, lacrime vere. «Per me è un grande onore poter lavorare in questa città», disse singhiozzando.
L’INTERDIZIONE. E proprio mentre le agenzie di stampa diffondono le intercettazioni-choc, arriva la decisione del gip circa la richiesta della Procura partenopea di disporre l’interdizione dai pubblici uffici per l’ex vicecapo della Polizia Nicola Izzo e per l’ex prefetto dell’Aquila Iurato. Una decisione assunta dal giudice del tribunale di Napoli Claudia Picciotti nell’ambito dell’inchiesta sul trasferimento del Cen (Centro elettronico nazionale) da Roma a Napoli. Nei giorni scorsi il prefetto Giovanna Maria Rita Iurato era stata interrogata per sette ore dal magistrato, mentre il prefetto Izzo si era rifiutato di essere sottoposto a interrogatorio in quanto i suoi legali di fiducia hanno ritenuto che la Procura di Napoli non fosse quella competente per l’indagine. Secondo l’accusa, per trasferire a Napoli il Cen sarebbero stati sperperati milioni di euro di fondi pubblici. Gli avvocati dell’ex prefetto dell’Aquila, intanto, esprimono «stupore per l’adozione del provvedimento di interdizione nonostante i precisi chiarimenti dati al gip durante il lungo interrogatorio, al quale Iurato si è sottoposta». I legali si dicono «certi che quanto prima si riuscirà a dimostrare la completa estraneità ai fatti contestati».

sabato 19 gennaio 2013

PAOLO BORSELLINO...


Le domande che non avrei voluto fare
di Salvatore Borsellino | 27 settembre 2010
Commenti - IL FATTO QUOTIDIANO

Più informazioni su: Agende Rosse, Giovanni Falcone, giuseppe ayala, Nicola Mancino, Paolo Borsellino, Strage di Capaci, Strage di via D’Amelio.
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Ero rimasto a disagio, e non è la prima volta che mi succede, nel leggere le dichiarazioni di Giuseppe Ayala riguardanti le scorte dei magistrati e in particolare dei magistrati di Palermo. Mi era sembrata una dichiarazione inopportuna, stonata e stranamente sincrona con una analoga dichiarazione dell’arcivescovo di Palermo Paolo Romeo che aveva addirittura lamentato un preteso spreco di risorse pubbliche per “quanto si spende per le cene dei magistrati con scorta”. Delle affermazioni del monsignore non vale nemmeno la pena di parlare, basterà ricordargli i 2,5 milioni di euro che verranno dilapidati per la visita del Papa a Palermo – una città con enormi problemi di ogni tipo – in opere delle quali alla città non rimarrà nulla, o chiedergli perché invece di lamentarsi dei fondi per pretese cene dei magistrati con scorta, che non mi risultano avvenire abitualmente o essere a carico dello Stato, non abbia parlato invece dei costi della politica istituzionale non per scorte ma piuttosto per escort e al costo dei voli di Stato adoperati per trasferire in ville in Sardegna nani, ballerine e menestrelli di ogni tipo.

Ad Ayala che afferma, tra l’altro che “Cosa nostra è cambiata, da oltre 18 anni non uccide più” e che auspica per questo “una responsabile, se pur graduale rivisitazione delle scorte in circolazione” avrei voluto ricordare i progetti di attentati, per fortuna scoperti in tempo grazie a quelle intercettazioni che si vorrebbero abolire, nei confronti di magistrati come Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Sergio Lari, Giovanbattista Tona e gli attentati, progettati o anche realizzati seppure finora per fortuna senza esiti mortali, nei confronti di magistrati calabresi.

Ma piuttosto che a disagio sono rimasto ora indignato nel leggere la replica di Ayala alle sacrosante reazioni dell’Anm e in particolare del presidente della giunta di Palermo, Nino Di Matteo che dice, e le sue parole mi sento di sottoscrivere pienamente, “L’intervento di Ayala mi lascia veramente perplesso. Evidentemente il collega, anche per la sua lunga militanza politica è da troppi anni ben lontano dalla trincea e dall’attualità delle inchieste e dei processi di mafia. Proprio questa attualità dovrebbe semmai indurre gli organismi preposti ad una rinnovata attenzione”. Nella sua risposta Ayala, che ha perso ancora una volta un’ottima occasione per tacere, replica, quasi ironizzando, definendo Nino Di Matteo “un collega che ha cominciato a muovere i primi passi da magistrato soltanto nel 1993”, quasi che questo costituisse una colpa e senza accorgersi di quanto le sue parole siano tristemente simili a quelle di Francesco Cossiga quando credeva di bollare con l’epiteto di “giudice ragazzino” quel Rosario Livatino la cui grandezza è semmai accresciuta proprio da quella definizione che il Presidente Emerito aveva usato in maniera spregiativa. Poi Ayala non si esime, come è suo costume, di pavoneggiarsi citando i suoi “dieci anni nel pool antimafia e i diciannove anni di vita blindata”. Peccato che del pool antimafia Ayala non abbia mai fatto parte essendo il pool diretto dal Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto e formato da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, tutti magistrati facenti parte dell’Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Palermo. Non ne poteva far parte Giuseppe Ayala che esercitava il suo ruolo di Magistrato presso la Procura di Palermo e che ricoprì il ruolo di Pubblico Ministero al primo maxiprocesso insieme a Domenico Signorino, morto suicida dopo le accuse da parte di Gaspare Mutolo di essersi venduto alla mafia a causa degli ingenti debiti di gioco. Ma Ayala ha sempre giocato sull’equivoco proclamando in ogni occasione la sua appartenenza al pool antimafia e non se ne capisce la ragione , se non quella di volere concentrare l’attenzione su di sé, quando invece dovrebbe essergli sufficiente , senza alterare la verità, citare il fatto di avere, in qualità di pm, sostenuto al processo il procedimento istruito proprio dal pool di Falcone e Borsellino.

Strana coincidenza, questa dei debiti, che accomuna i due pm del maxiprocesso, ma che a uno, Domenico Signorino, costarono il volontario addio alla vita spinto dal tormento del rimorso per aver ceduto ai ricatti della mafia, all’altro, Giuseppe Ayala, soltanto un provvedimento disciplinare da parte del Csm e il volontario trasferimento al tribunale di Caltanissetta nelle more di un inspiegabile ritardo nell’attuazione del provvedimento di spostamento dal tribunale di Palermo per incompatibilità ambientale.

Non conoscevo di persona Ayala prima della morte di Paolo, né avevo sentito parlare proprio per il suo ruolo di pm al maxiprocesso e dopo la strage di Capaci mi aveva colpito, e non favorevolmente, il suo continuo accreditarsi come l’amico più intimo di Giovanni Falcone, per cui una volta mi capitò di parlarne con Paolo in una delle poche telefonate che avemmo in quei tragici 57 giorni che intercorsero tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. Mi ricordo che mi disse, in quel dialetto in cui abbiamo sempre amato esprimerci tra di noi, e mi sorprese il tono, quasi di fastidio, che usò allora “chistu l’avi a chiantari, pari ca fussi sulu iddu amicu di Giovanni” (“questo la deve piantare, sembra che fosse solo lui amico di Giovanni”). In seguito ho incontrato Ayala poche volte, in occasione di incontri ai quali eravamo stati invitati entrambi come relatori e ogni volta ho ascoltato quasi con avidità i suoi racconti, è dotato di spiccate dosi di affabulatore, di episodi e di aneddoti della vita di Paolo, cosa che faccio ogni volta che incontro una persona che ha avuto l’occasione di condividere con Paolo una parte di quei 23 anni di vita in cui io, che sono andato via da Palermo a 27 anni, gli sono stato, per la maggior parte del tempo, lontano.

Più volte mi è invece capitato, a fronte di episodi nei quali è stato coinvolto Giuseppe Ayala, di sentire la necessità di porgli delle domande, delle domande su pesanti dubbi che mi erano nati a fronte di certi episodi che lo hanno coinvolto dopo la morte di Paolo, ma mi sono sempre trattenuto pensando ai rapporti di amicizia che lo legavano a Paolo di cui mi ha sempre parlato nei suoi racconti. Ma adesso a sentirlo vantarsi, nella sua replica a Nino Di Matteo, del suo “self control”, a sentirlo irridere chi, parlando della situazione attuale in Sicilia parla di “trincea”, scrivendo testualmente: “Accantono ogni pudore. Non credo proprio che riuscirò mai a dimenticare le vittime della barbarie mafiosa di quell’orrendo periodo. Le vedove e gli orfani ai quali ho donato una carezza consolatoria. I miei dieci anni nel pool antimafia e i diciannove di vita blindata. E non aggiungo altro. Altrimenti qualcuno mi accuserà di volere infierire”, dato che il pudore lo ha veramente accantonato, sono io ad abbandonare ogni remora e a fargli finalmente quelle domande che da tanto tempo rimugino nella mente . Perché, se si ha avuto la sorte di partecipare a quei funerali soltanto da spettatore e non da vittima, si deve avere il pudore di non ascrivere a proprio merito le “carezze consolatorie” che si è riusciti a “dispensare” e non si può rinfacciare i propri “diciannove anni di vita blindata” conclusi peraltro con l’abbandono, per di più temporaneo, della magistratura ed il passaggio ad una più agiata vita da parlamentare, a chi invece la vita blindata la conduce ancora oggi.

E allora eccole, rivolte ad Ayala e in attesa di una risposta, le domande che non avrei voluto fare.

La prima domanda riguarda l’Agenda Rossa di Paolo e la sparizione di questa dalla borsa che sicuramente la conteneva dato che la moglie di Paolo, Agnese, gliela aveva vista riporre prima di partire per il suo appuntamento con la morte. Delle circostanze relative al rinvenimento e al prelievo di questa borsa Ayala, che è testimone diretto visto che fu uno dei primi ad arrivare sulla scena della strage, ha dato, in successione e in tempi diversi almeno quattro versioni differenti.

La prima è dell’ 8 aprile 1998 e fu resa quindi da Giuseppe Ayala, che il 19 luglio 1992 era deputato della Repubblica, sette anni prima del coinvolgimento del Capitano Giovanni Arcangioli.

“Tornai indietro verso la blindata della procura anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell’auto. Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore dove notammo tra questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiature e tuttavia integra, l’ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai magistrati della procura di Palermo”.

In questa prima versione è dunque un ufficiale in divisa ad aprire la portiera, ad estrarre la borsa e a fare il gesto di consegnarla ad Ayala, ma lui rifiuta di prenderla in mano.

Il 2 luglio 1998, al processo Borsellino Ter, Ayala dichiara di essere residente all’hotel Marbella, a non più di 200 metri in linea d’aria da Via D’Amelio. Sente il boato nel silenzio della domenica pomeriggio. Si affaccia, ma non vede nulla perché davanti c’era un palazzo. Per curiosità scende giù, si reca in via D’Amelio e vede “una scena da Beirut”. Dal momento dell’esplosione “saranno passati dieci minuti, un quarto d’ora massimo”. Dice di non sapere che lì ci abitava la madre di Paolo Borsellino. Camminando comincia a vedere pezzi di cadavere. Vede due macchine blindate, una con un’antenna lunga, di quelle che hanno solo le macchine della procura di Palermo. Pensa subito a Paolo Borsellino. “Ho cercato di guardare dentro la macchina, ma c’era molto fumo nero”. Ayala afferma che proprio in quel momento stavano arrivando i pompieri. Osserva il cratere e poi torna indietro. “Sono tornato verso la macchina, era arrivato qualcuno… parlo di forze di polizia. Ora, il mio ricordo è che a un certo punto questa persona, che probabilmente io ricordo in divisa, però non giurerei che fosse un ufficiale dei carabinieri, (….) ciò che è sicuro è che questa persona aprì lo sportello posteriore sinistro della macchina di Paolo. Guardammo dentro e c’era nel sedile posteriore la borsa con le carte di Paolo, bruciacchiata, un po’ fumante anche… però si capiva sostanzialmente… lui la prese e me la consegnò (….) Io dissi: – Guardi, non ho titolo per… La tenga lei. –“.

In questa versione, leggermente ritoccata rispetto alla prima, non c’è più la sicurezza di un ufficiale in divisa che apre la portiera, ma permane la certezza che sia stata questa persona ad aprire la portiera e a raccogliere la borsa. Ayala, in ogni caso, nega assolutamente di avere preso in mano ed aperto la borsa. “Io poi mi sono girato, sono andato di nuovo verso questo giardinetto, e lì poi ho trovato il cadavere di Paolo (…). Io ci ho inciampato nel cadavere di Paolo, perché non era una cadavere… era senza braccia e senza gambe”.

Le corrispondenti dichiarazioni rilasciate il 5 maggio 2005 dal Capitano Arcangioli, l’ufficiale cui fa riferimento Ayala, sono completamente differenti. Ayala parla di un ufficiale in divisa mentre Arcangioli dice che è in borghese, Ayala dice di avere esaminato la macchina con l’ufficiale mentre Arcangioli dice che Ayala era rimasto in un posto diverso. Ayala dice che la borsa era bruciacchiata mentre Arcangioli dice di no. Ayala dice di avere rifiutato la borsa e di non averla mai aperta ed esaminata mentre Arcangioli dice che addirittura la aprirono e la esaminarono insieme. E’ chiaro che almeno uno dei due mente, se non entrambi.

Il 12 settembre 2005 Ayala cambia completamente versione.

Afferma di essere arrivato sul luogo subito dopo l’esplosione, di avere identificato il cadavere di Paolo Borsellino e di avere notato l’auto del magistrato con la portiera posteriore sinistra aperta. “Scorsi sul sedile posteriore una borsa di pelle bruciacchiata. Istintivamente la presi, ma mi resi subito conto che non avevo alcun titolo per fare ciò, per cui ricordo di averla affidata immediatamente ad un ufficiale dei carabinieri che era a pochi passi. Nell’affidargli la borsa gli spiegai che probabilmente era la borsa appartenente al dottore Borsellino”. Quando gli viene mostrata la foto di Arcangioli, Ayala dichiara: “Non ricordo di avere mai conosciuto, né all’epoca né successivamente il capitano Arcangioli. Non posso escludere ma neanche affermare con certezza che detto ufficiale sia la persona alla quale io affidai la borsa. Per quanto possa sforzarmi di ricordare mi sembra che la persona alla quale affidai la borsa fosse meno giovane, ma può darsi che il mio ricordo mi inganni. Insisto comunque nel dire che l’ufficiale ricevette la borsa e poi andai via. Escludo comunque in modo perentorio che all’inverso sia stato l’ufficiale di cui si parla a consegnare a me la borsa”.

Cambia tutto dunque. Non è più l’ufficiale in divisa ad estrarre la borsa dalla macchina, ma Ayala in persona, che aveva precedentemente escluso di avere mai preso in mano la borsa.

E’ lui a questo punto a consegnarla all’ufficiale e questa volta esclude “in modo perentorio” che sia avvenuto l’inverso.

L’8 febbraio 2006 Ayala modifica di nuovo la propria versione dei fatti: “Ebbi modo di vedere una persona in abiti borghesi (…) è certo che non fosse in divisa, la quale prelevava dall’autovettura attraverso lo sportello posteriore sinistro una borsa. Io mi trovavo a pochissima distanza dallo sportello e la persona in divisa si volse verso di me e mi consegnò la borsa (…). Dato che accanto alla macchina vi era anche un ufficiale in divisa quasi istintivamente la consegnai al predetto ufficiale.”

Cambia tutto di nuovo. Questa volta Ayala si dice certo che la persona non fosse in divisa, ma in borghese. Non fu lui quindi ad estrarla, ma la prese in mano e la consegnò poi ad un altro ufficiale, in divisa. Questa dichiarazione di Ayala è talmente confusa che lui stesso chiaramente sbaglia quando dice “la persona in divisa si volse verso di me”, visto che due secondi prima si era detto certo che non fosse in divisa. La ritrattazione di Ayala non potrebbe essere più traballante e incoerente di così.

La domanda che a questo punto mi preme fare a Giuseppe Ayala è la seguente: ma come è possibile che un magistrato della sua esperienza, abituato a vagliare le deposizioni dei testimoni e degli imputati, possa dare versioni così contrastanti e contraddittorie di una circostanza di cui lui stesso è non testimone ma attore diretto, come è possibile che si sia prestato ad alterare la scena del delitto prelevando la borsa e poi consegnandola ad una persona della quale non ricorda neppure chiaramente se fosse in divisa o in borghese, come è possibile che avendo avuto in mano un reperto così fondamentale come la borsa contenente l’agenda rossa di Paolo non lo abbia protetto per assicurarsi, se egli come dice “non aveva titolo” per prenderlo in consegna, che fosse almeno consegnato ad una persona di sua assoluta fiducia.

Giuseppe Ayala ha avuto in mano l’agenda di Paolo, la cui sottrazione è stata uno dei motivi di quella strage e non la ha saputa proteggere come avrebbe potuto e dovuto?

O c’è qualche altra, agghiacciante, risposta ?

Ma c’è un altro episodio, sempre relativo a Paolo Borsellino che mi ha fatto nascere forti perplessità su Giuseppe Ayala e riguarda l’incontro del 1° luglio 1992 tra lo stesso Paolo e Nicola Mancino nel suo studio del Viminale dove Mancino si era appena insediato come ministro dell’Interno. Io ho sempre sostenuto che quest’incontro non solo ci fu ma che nel corso di esso Mancino parlò a Paolo di quella scellerata “trattativa” che era stata avviata tra la criminalità organizzata e pezzi dello Stato, e di cui Mancino, come da recenti rivelazioni di alcuni collaboratori di Giustizia, costituiva il “terminale istituzionale”. Sostengo anche da tempo che deve essere stata la reazione violenta e senza appello di Paolo a quella proposta che deve avere affrettato la necessità della sua eliminazione e l’attuazione della strage del 19 luglio 1992. Di quell’incontro resta la testimonianza diretta di Paolo che nella sua agendina grigia che, diversamente dalla sua agenda rossa non è stata sottratta subito dopo la strage, annota “1° luglio – Ore 19:30 – Mancino”. Mancino ha però sempre negato l’incontro, sostenendo addirittura, e qui la sua affermazione risulta assolutamente inverosimile, che anche se avesse incontrato Paolo non potrebbe ricordarlo perché “non lo conosceva fisicamente”. E a fronte dell’esibizione da parte mia dell’agenda di Paolo che prova il contrario di quello che egli afferma, ha esibito in televisione una sua agenda ‘planning’, cioè quelle agende che riportano sulla stessa pagina i giorni di tutta una settimana nella quale, per quel giorno, non risulta alcun appuntamento. Ora a parte il fatto che ciò non prova nulla perché l’appuntamento potrebbe non averlo annotato, è la stessa agenda ad essere inverosimile perché in tutta la settimana sono annotate soltanto tre righe e non è pensabile che tutta l’attività settimanale di un ministro della Repubblica, appena nominato, riesca a riempire solo tre righe di un planning.

Su questa storia dell’incontro e dell’agenda Giuseppe Ayala ha dato a Mancino un maldestro assist cadendo anche in questo caso in evidenti contraddizioni come nel caso dell’agenda rossa.

Il 24 luglio del 2009, durante un’intervista ad Affari Italiani, Ayala dichiara: “lo stesso Nicola Mancino mi ha detto che il 1° luglio incontrò Paolo Borsellino. Le dirò di più, Mancino mi ha fatto vedere la sua agenda con l’annotazione dell’incontro”.

Ma poche ore dopo, questa vota sul settimanale Sette ribalta completamente la precedente dichiarazione e afferma: “Si è trattato di un lapsus. In realtà volevo dire che non ci fu nessun incontro. Anzi Mancino tirò fuori la sua agenda per farmi vedere che non c’era nessuna annotazione”.

Ci risiamo, per la seconda volta, e sempre in relazione a Paolo Borsellino, Ayala si contraddice in maniera evidente e fa dichiarazioni che, da magistrato, avrebbe pesantemente contestato a qualsiasi testimone, imputato o collaboratore di Giustizia. E non si tratta di una contraddizione da poco perché riguarda un incontro che, come io ritengo, è stato la causa o almeno ha affrettato la fine di Paolo Borsellino.

Può chiarire Ayala questa contraddizione e questa circostanza? Perché si è prestato a sostenere questa versione e su sollecitazione di chi ha poi ritrattato? Finora non lo ha fatto perché della sua prima dichiarazione esiste la registrazione audio e quindi non può in alcuna maniera affermare di essere stato frainteso.

Un’ultima cosa. Ayala continua a ricordare in ogni suo intervento la sua amicizia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e senza dubbio in un certo periodo della sua vita questa amicizia c’è stata, ma proprio per questo dovrebbe evitare di mercificarla e sono rimasto veramente allibito quando, qualche giorno fa, ho letto testualmente di un “recital-spettacolo“ dal titolo “Chi ha paura muore ogni giorno” nel quale il “consigliere preso la Corte D’Appello dell’Aquila, debutta a teatro” E, in coda è riportato : “Prezzi: Poltronissima 40,00; Poltrona I settore 35,00; Poltrona II settore 25,00; Tribuna 15,00”. Siamo alla svendita dell’amicizia e dei ricordi.

Anche se poi oggi forse non è più tanto conveniente vantarsi di essere stato amico di Paolo, come in tanti, troppi, dopo la sua morte hanno preso l’abitudine di fare, se, come hanno testimoniato due magistrati che lavoravano con Paolo a Marsala, Alessandra Camassa e Massimo Russo, a pochi giorni dalla strage del 19 luglio, essendo andati a trovare Paolo nel suo ufficio alla Procura di Palermo, lo trovarono sconvolto e in pianto mentre, con la testa tra le mani, ripeteva “Un amico mi ha tradito, un amico mi ha tradito”. E nell’ agenda rossa sparita Paolo Borsellino avrà sicuramente annotato anche il nome di quel traditore.

martedì 15 gennaio 2013

GRANDE MANLIO.........

L’auto anti “casta” del meccanico Manlio

Revine, singolare protesta di un ex emigrante di 71 anni che ha ricoperto la sua Punto di scritte contro politici e ingiustizie... fonte QUI

di Francesca Gallo REVINE LAGO. Gravemente malato e con una pensione da fame protesta scrivendo sulla sua auto frasi contro la “casta” dei politici. Tanto che la Fiat Punto di Manlio Graziani, 71 anni, ex emigrante, è ormai diventata un manifesto ambulante contro la vergogna italiana della mala politica. «Se avessi i soldi per la benzina», ringhia l’ex artigiano, «la piazzerei in tutti i mercati del Veneto. La gente deve sapere la vergogna dell’Italia».
Manlio Graziani, vittoriese di nascita, abita in una casa in affitto sulla strada dei Laghi, a Santa Maria, frazione di Revine. Per 28 anni ha lavorato in Germania dove ha fatto l’interprete per la polizia, venditore e riparatore di auto, capo officina.
«Lavoravo giorno e notte», racconta, «mi sono distrutto. Ho sgobbato come un cane per l’Italia, per dimostrare che non siamo solo mafia. E tutto per una pensione di 460 euro al mese. Altri 320 euro li percepisco dall’Inps. Con questi pochi soldi devo pagare 367 euro di affitto, le spese per la casa e le cure per una grave malattia neuromuscolare. Ho un armadietto pieno di medicinali. Alla fine mi restano solo 50 euro per vivere».
Tre mesi fa, al colmo dell’esasperazione, ha preso il pennarello indelebile e ha iniziato a raccontare la sua protesta sulla sua Fiat Punto bianca. Frase dopo frase, ormai la vettura è diventata un “tazebao” itinerante, che appena può l’ex emigrante porta in giro per le piazze.
Come accaduto anche venerdì a Belluno. «C’era una folla di gente tutto intorno alla macchina», racconta Graziani, «tutti mi dicono bravo ma nessuno fa niente. A stimarmi sono le donne, mentre gli uomini hanno paura e non si espongono. A Vittorio Veneto al semaforo mi hanno persino baciato. E una coppia di giovani mi ha lasciato un biglietto con scritto: ti stimo». La Punto è ormai una sorta di piccola enciclopedia dell’attualità del malgoverno. “Un lavoratore deve faticare tre anni”, si legge tra l’altro, “per guadagnare lo stipendio di un mese dei ladroni (politici) che lavorano tre giorni alla settimana e ancora rubano”. “Solo un malato di mente tassa le offerte per la ricerca sanitaria”. “La Germania ha sedici scorte e noi ne abbiamo centinaia”. “L’Europa ha 27 stati: 24 stanno bene. Grecia, Spagna e Italia stanno male, governate dai ladri”. “Sessantaquattro suicidi: pensa quanto lavoro abbiamo perso, gente che ha sofferto”.
Graziani è vedovo e ha una figlia che vive in Germania. Ha accumulato 40 anni di contributi tra previdenza tedesca e l’Inps che gli ha riconosciuto il minimo. «Quel che è certo», conclude, «è che non voterò nessuno

lunedì 14 gennaio 2013

BEPPE GRILLO

Burocrazia vs democrazia

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"Stercorari" di EscherIn Italia abbiamo un decifit di democrazia e un eccesso di burocrazia. Non a caso. Più prolifera la burocrazia, più diminuisce la democrazia. Nelle dittature, infatti, la burocrazia è usata per giustificare ogni nefandezza dello Stato. All'aumentare della burocrazia, come chiunque sa dopo aver affrontato quest'Idra dalle mille teste, diminuiscono i diritti dei cittadini. La burocrazia si nutre di sé stessa, è bulimica, si autoriproduce, ama la complessità dietro alla quale si rifugia e si giustifica. E' al servizio del Sistema, ma talvolta gli sfugge e diventa più forte di qualunque potere.
"Burocrazia: Organizzazione statale nella quale lo svolgimento dell'attività amministrativa, è affidato a enti che agiscono nel rispetto dei regolamenti (dizionario lingua italiana Hoepli)". Un ministro non può spostare neppure una pianta di ficus nel suo ufficio senza l'assenso della burocrazia, del regolamento. Si può mettere in discussione un partito e perfino un'Istituzione dello Stato, ma non la burocrazia. Con la sua immensa pletora di codici, codicilli, procedure, paragrafi, commi, eccezioni, metodi e via impazzendo, è invulnerabile. La burocrazia è, nei fatti, immune all'errore, se colta in flagrante nega, rimanda, si appella, gioca sul tempo e sulle sue immense risorse. Il comune cittadino deve dedicare metà della sua vita per avere una possibilità di vincere un ricorso. Meglio quindi espatriare o venire a patti.
Semplificazione, efficienza, informatizzazione, tempi di risposta certi sono i nemici della burocrazia, gli antidoti, che però in Italia la burocrazia ha sconfitto da tempo. Anzi, come beffa, li usa a suo uso e consumo nei seminari in cui il Grande Funzionario di turno spiega i successi ottenuti nella modernizzazione dello Stato. Seminari in cui sono immancabilmente presenti ministri dello Sviluppo e della Semplificazione insieme alle aziende fornitrici di nome interessate agli appalti, ma non ai risultati. La burocrazia è lo scudo spaziale italiano contro la partecipazione del cittadino alla vita pubblica. Meno capisce, meno è in grado di far valere i suoi diritti e più diventa suddito. Novello Renzo Tramaglino di fronte ad Azzeccagarbugli. L'eccesso di burocrazia deprime lo sviluppo, fa fuggire le aziende all'estero, assorbe una quantità enorme del nostro tempo, rende la giustizia meno uguale per tutti. Per i potenti c'è però sempre una scorciatoia, un'interpretazione, un condono, una distrazione. Il costo della burocrazia italiana è immenso, le società straniere evitano gli investimenti in Italia come la peste per la burocrazia. Per partecipare alle elezioni politiche il M5S sta combattendo da mesi contro la burocrazia, molto di più che con partiti, mafie, informazione e lobby varie. La burocrazia è come un sudario di cemento, avvolge il Paese con procedure interpretate da funzionari invisibili che non devono mai rispondere a nessuno del loro operato.
"Che gente era quella? Di che cosa parlavano? Da quale autorità dipendevano? Eppure K. viveva in uno stato di diritto, dappertutto regnava la pace, tutte le leggi erano in vigore, chi osava aggredirlo in casa sua? Era sempre propenso a prendere ogni cosa con disinvoltura, a credere al peggio solo quando il peggio era arrivato, a non farsi preoccupazioni per il futuro, neanche quando si presentava minaccioso. Ma ora questo non gli sembrava giusto, si poteva considerare il tutto uno scherzo, uno scherzo pesante...". Franz Kafka, Il Processo.
Ps: Lo Tsunami tour di domani, lunedì 14 gennaio, è sospeso in attesa delle decisioni del Viminale.

sabato 12 gennaio 2013

CIAO MARIANGELA...


BEPPE GRILLO

l M5S parteciperà alle elezioni?

 
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Per depositare la scheda elettorale e i documenti correlati è necessario recarsi al Viminale. E' esentato chi è già presente in Parlamento, ma non chi ha già partecipato con il simbolo a cinque elezioni regionali e qualche centinaio di elezioni comunali, come il MoVimento 5 Stelle. Ma questo è un dettaglio. Dopo verifiche di legge, consultazioni con studi legali, firme dai notai, ordini, contrordini, gazzette ufficiali e interpretazioni e contro interpretazioni, giunge il giorno fatidico del deposito. Il deposito è aperto a tutti, anche a chi non ha raccolto una sola firma con il suo simbolo. I moduli con le firme vanno depositati la settimana successiva nei vari tribunali delle circoscrizioni, quindi chiunque può partecipare alla farsa. Il giorno fatidico arriva quando arriva, a sua discrezione, è come la sorpresa dell'uovo di Pasqua. All'improvviso, nella settimana del deposito, vengono poste le transenne davanti al ministero degli Interni: è il segnale che è scoccato il momento della coda. Se stai mangiando un maritozzo nel bar davanti o ti sei appostato nell'appartamento con vista sul Viminale o hai ricevuto una soffiata, allora hai un'alta probabilità di occupare il primo posto della fila. Una volta piazzato lì, in piedi, come uno stoccafisso, nessun pubblico ufficiale ti lascia un riscontro della tua posizione: un bigliettino, un pezzo di carta di formaggio, un numero della tombola. Devi difendere il posto come in trincea. Rimpiangi le Poste Italiane che hai sempre disprezzato, da loro almeno sai quando aprono, ti danno un numerino e stai in un luogo caldo. La fila si forma dal pomeriggio di lunedì 7 gennaio, ma gli uffici accettano il deposito solo dalle ore 8 di venerdì 11. 90 ore al freddo, di giorno e di notte, con i turni e le tazze di caffè caldo, con gli amici a darti il cambio, sembra il fronte orientale di "Centomila gavette di giaccio" nella seconda guerra mondiale. Siamo però a Roma settanta anni dopo.
Chiunque abbia gestito l'Italia nei secoli, dai Romani ai Goti, dai Longobardi agli Spagnoli, dai Borbone ai Savoia, si vergognerebbe di fronte a un simile spettacolo. Davanti al M5S ci sono ben tre gruppi con il loro simbolo che però tengono gelosamente segreto. Venerdì due avvocati e un tecnico di supporto del M5S si presentano all'ufficio elettorale. I documenti vengono letti e il deposito accettato. Nel caso ci siano delle richieste o delle contestazioni da parte dell'ufficio saranno comunicate da domenica pomeriggio. Da allora avremo due giorni per presentare ricorsi o integrazioni. Salutati i funzionari, i nostri vedono nel tabellone elettorale due simboli quasi identici. Chi era in fila prima di noi ha consegnato all'ufficio il simbolo del M5S senza l'indirizzo del sito. Assolutamente confondibile dall'elettore. Abbiamo fatto ricorso. Dovremo aspettare martedì pomeriggio per sapere se il M5S parteciperà alle elezioni. In caso della presenza di un simbolo confondibile non parteciperemo. Questa è l'Italia che non c'è più, che non ci appartiene, che va cambiata dalle fondamenta. Se entreremo in Parlamento lo apriremo come una scatola di tonno. Se non ci lasceranno partecipare si prenderanno la responsabilità della delegittimazione dello Stato e delle inevitabili conseguenze.

giovedì 10 gennaio 2013

CARLO BERTANI

Mio fratello, Paolo Bertani, fa questi fotomontaggi: facciamoci due risate. Amare.FONTE QUI











CARLO BERTANI

Operazione Polli di Renzo 

FONTE QUI





Sessant’anni, donna, operaia tessile.

Un giorno come un altro – immagino, sono un uomo – il seno ti fa male e vai a fare il test; la risposta è senza appello: cancro al seno, operare subito, siamo già in “zona rischio”.

Diligente, sai che non hai scelta: superi la paura, ti fai ricoverare e ti operano. La tua unica speranza è sopravvivere: per te, tuo marito ed i tuoi figli.

L’operazione va bene ed i medici sono soddisfatti, anche tu tiri un sospiro di sollievo: sarà vero? Vedremo, intanto poteva andare peggio, potevano non dirti niente e, con un po’ di sfortuna in aggiunta, intravedere un camice bianco che scoteva la testa.



Terminata la convalescenza, ti contattano per mettere una protesi: è giusto, perché una donna con un seno solo deve sentirsi come una barca col timone bloccato, che non riesce a stare al vento e sbanda.

Tutto va bene e te ne torni a casa col tuo nuovo seno di silicone: non è più come prima – certo – ma anche l’occhio vuole la sua parte e, almeno, sotto il golf sembra una cosa normale, che non ti sia successo niente.

Fai la domanda per l’invalidità – non sei una persona che fa un lavoro sedentario – e non sai cosa ti diranno, ma speri: capiranno cosa ti è cascato sulla testa inaspettatamente? Il pianto ricacciato, la paura che i tuoi cari intorno al letto d’ospedale non ti dicessero la verità, che anche i medici mentissero per pietà.

Inoltre, anche dopo l’operazione, sollevare pesi forza troppo i muscoli attigui alla parte colpita dal tumore.

La risposta arriva dopo mesi – tutto quel che è un tuo diritto, oramai, in Italia giunge sempre in ritardo: ebbi il riconoscimento della legge 104 per mia suocera, invalida su una sedia a rotelle, ed il primo permesso me lo diedero il giorno del funerale! – e, lì per lì, non ti sembra molto chiara: ti viene riconosciuto il 74% d’invalidità.

Cosa vuol dire? In pratica, che non hai diritto a nulla: per avere qualche beneficio (del tutto aleatorio, tipo liste speciali, ecc) bisogna arrivare al 75%. Par en punt Martin l’à perdü le braie (per un punto Martino ha perso i pantaloni, raccontava mia nonna, torinese “doc”).

T’hanno presa in giro.



Eppure hai raccontato che, in un turno di 8 ore, sollevi circa 1.400 kg: 175 chili l’ora non sono molto, ma dopo aver subito un simile intervento chirurgico sono ben oltre le tue possibilità, e i medici lo sanno! Perché?

Ci sono parecchie ragioni tecniche, anche se la verità “che tutto muove” è la protervia del potere.

I medici, soprattutto quelli delle commissioni mediche, sono sottoposti ad uno spietato forcing da parte dell’INPS, il quale si arroga sempre di più strumenti di controllo sulle invalidità concesse: il che, non impedisce che, gli stessi politici (vedremo in seguito) si diano un gran daffare per proteggere i loro accoliti.

Da qui nascono i ciechi che giocano a carte e gli invalidi che trotterellano sui campi di calcio: in altre parole, ci vuole la classica “spinta”, altrimenti finisci col 74%.



Un secondo ostacolo riguarda i ricorsi: un tempo, si faceva ricorso alla Commissione Medica Regionale la quale – erano, spesso, medici militari – era meno soggetta alle volontà della Casta. Ci pensò Berlusconi nella legislatura 2001-2006: pensi che ti abbiano fatto un torto? Rivolgiti alla giustizia civile: ricorri al giudice monocratico…poi l’Appello, la Cassazione, fino alla Corte Costituzionale, al CEDU…intanto, sarai certamente morto.

I legali affermano che non è difficile vincere in primo grado, dopo…non ci giocano più di un cerino.

Cara amica: non ti rimane che continuare a sollevare i tuoi 1.400 chili per turno ancora per qualche anno…se sarai viva…altrimenti, lascerai il tuo 40% di pensione alle casse dell’INPS che sa cosa farne. Oh, come lo sa: ci sono molte liquidazioni milionarie dei manager di stato che aspettano, più le pensioni d’oro…



Mi ricordo di te, anche se non ci sei più, perché – per uno strano caso della vita – fui il tuo tutore per i passaggio in ruolo.

Piccola parentesi: nel “nuovo che avanza” sopravvivono usanze medievali come quella che – chi passa di ruolo nella scuola – viene valutato, soppesato, attentamente scrutato da due colleghi che devono stendere un’accurata relazione. I quali, spesso, saltano la barricata e finiscono per essere gli avvocati difensori dei colleghi: chi non lo farebbe?

Il tuo caso era un imprevisto accidente, perché non eri passata in ruolo l’anno precedente – storia più unica che rara – giacché avevi lasciato correre la verve di scrittrice nella tua relazione: soprattutto era stato quel “strano a dirsi, giungere all’alfa quando già s’intravede l’omega”. Non te lo perdonarono.



L’anno dopo ci mettemmo una pezza: il Dirigente Scolastico sapeva che eravamo pronti alla sfida, che portavamo appresso una serie di sentenze e lasciò correre. Brindammo al tuo passaggio di ruolo.

Già, l’omega: giusta la citazione, perché avevi già 53 anni e una carriera da precaria alle spalle. Capii la tua ironia.

Eri anche scrittrice, una fine scrittrice, ma pochi se n’accorsero: le tue storie inventate osservando i gatti nel cortile – umanizzati, ma col dubbio che fossero umani dalle sembianze gattesche – erano divertenti, come le tue peregrinazioni all’estero alla ricerca di un’adozione perché non potevi avere figli. E li amavi tanto.

Però, non ce la facevi già più, a 53 anni. Come lo ricordo.

Scorrevo il registro – una classe difficile, d’accordo, più adatta per dei sergenti che per una mamma trepidante – e vedevo le tue note: due, poi tre, quattro la settimana. Erano il segno che non riuscivi, che la tua bontà non serviva: per quelli ci voleva un po’ di frusta – chiedevano la presenza dell’autorità come una certezza nella quale credere, che scambiavano per autoritarismo – e non una mamma pietosa innamorata dei classici.

Fu un anno d’inferno: finalmente finì, entrasti in ruolo e – come da contratto – facesti domanda di trasferimento. Ti persi di vista.



Fu un giorno di Primavera quello in cui vidi il tuo manifesto mortuario: era l’anno maledetto, l’anno della riforma Fornero. Forse capisti che i tuoi 58 anni, oramai, non contavano più nulla, che saresti dovuta rimanere ancora chissà quanto a lottare con classi sempre più demotivate e, quindi, aggressive. Giovani senza colpa, come lo erano i nuvolosi che correvano in cielo di quel giorno maledetto nel quale lessi della tua morte.

Non fu una morte epica: fu un ictus scaturito dal tuo sempre maggior nervosismo, dalle porte che si chiudevano improvvisamente e che si riaprivano in un futuro lontano, del quale era difficile anche pronunciare il numero. 2019? E cosa significa?

Spero che ti sia reincarnata in una gatta e scruterò i gatti del vicinato: se ne vedrò una nera che fa sempre la matta, saprò d’averti ritrovata.



Come sono belli i giardinetti coi bambini che giocano, i ragazzini che flirtano in quello strano modo che non comprendiamo più. I gesti sono meno evidenti ma, a ben vedere, gli sguardi sono gli stessi.

Nessuno fa caso ad un uomo di mezza età che sembra cercare solo una panchina: non ha fretta, il passo è lento e sembra soppesare ogni istante, mentre osserva le gemme degli alberi che sbocciano, il primo timido verde che s’affaccia al mondo, ad una stagione calda dove trionferà di verzura per poi accettare la caducità della vita e finire nel bidone del netturbino.

L’uomo la trova, si siede: estrae un pacchetto dalla borsa che sembra un panino. Adesso farà merenda, osservando i ragazzi che giocano a basket nell’attiguo campo coi canestri.

Invece no: estrae una pistola da tiro cal. 22 e si spara. Muore sul colpo.

E’ un insegnante di 58 anni, che è stato malato di cancro e che non sa quanto la vita ancora gli concederà: per quanto tempo il male starà fermo? Riuscirò a vedere il figlio sistemato, magari un nipotino?

Quando legge i criteri della riforma Fornero capisce che per lui non c’è speranza: a 62 anni ed oltre non c’arrivo più, troppo distante, anche se sembra dietro l’angolo.

E così se ne va dal mondo con l’immagine dei ragazzi che ha cresciuto per una vita: chiede quasi scusa per il disturbo, ma la 22 fa poco rumore, magari non tutti s’accorgono. Che sia finita.



Anche di te mi ricordo, perché la tua statura non passa inosservata: non è che fossi una perla di sapienza, ma non è richiesto per fare il netturbino. Due occhi placidi – t’amo pio bove – incorniciati dai riccioli: non mancavi mai se c’era da farsi un bicchiere di bianco d’Estate o sostare al bar per un caffè come rifugio d’Inverno, giusto per chieder tregua al vento del Nord.

Poi ci prendesti gusto, ma sapevi di potertelo permettere.

Non mancavi un festival dell’Unità, sempre in prima fila se c’era da spostare le sedie o dare una mano in cucina: a volte, addirittura, ti mettevano ad appiccicare gli adesivi all’ingresso, un mestiere senza infamia né lode e privo di particolari “know-how”.

Già, ma tuo padre era un capoccione del partito e tu eri entrato nel PCI già al concepimento: non lo sapevi, ma avevi già la tessera in tasca quando eri in grembo. E, quando fu tempo, quel posto da netturbino.



Gironzola, gironzola con la scopa e la bicicletta col bidone: fermati a parlare con un passante, a fumarti una sigaretta…poi entri in un negozio a fare due chiacchiere…nella bella stagione c’è una macchia di fichi sul tracciato della vecchia ferrovia: il luogo perfetto per piazzarci una brandina e sonnecchiare.

Così, ogni tanto sparivi e nessuno sapeva dov’eri: fino al giorno nel quale il tuo capo ti sorprende a russare della grossa, là, vicino all’imbocco – oramai chiuso – della vecchia ferrovia. Avrei desiderato essere una mosca per godermi la scena: qualche cicala che canta, vociare di bambini che giocano al pallone e tu che russi. Poi il capo che ti riprende e tu che accampi scuse: quali? Mah…



Rivoluzione: si passa dalle bici col bidone alle “Ape” col cassonetto: sei diventato un netturbino semovente, uno spazzino motorizzato. L’Ape è perfetta per allontanarsi di più dai ficcanaso: c’è un grazioso boschetto lassù, in alto ma non distante dalla città. Fai trasloco.

Ossia: carichi la vecchia branda con tutti gli ammennicoli e ti trasferisci in una macchia della boscaglia, fresca ed al riparo dagli sguardi indiscreti. E ronfi.

Passa il tempo perché quel rompiscatole del tuo capo deve setacciare le boscaglie, gli anfratti, le cantine…dove ti sei cacciato? Gli servirebbe un “Apache” col radar per scovarti, ma ha solo una vecchia “Uno” e pure senza radio.

Passano gli anni, ma è solo questione di tempo, un giorno – di sfiga per te e di culo per lui – s’inoltra proprio in quella macchia d’alberi e ti scova. Si ripete la scena d’anni prima, là, sulla vecchia ferrovia: a questo punto della storia ci stai quasi simpatico ed il tuo capo sembra un bel rompicoglioni. Ma sei pagato per fare quel mestiere: non dimenticarlo.



Stavolta la cosa si fa seria – e ti pareva: anni passati a fare il segugio… – ed il capo non molla: entra in scena il paparino, che ti fa una ramanzina e racconta la storia di Stakanov per cercare di redimerti ma – lo immagino – lo fissi coi tuoi occhi liquidi dove appena traspare quel poco che t’interessa. Ossia la moglie, la pastasciutta ed i bianchi.

M’arriva la notizia che sei andato in pensione. Ma come?!? Hai poco di più di cinquant’anni…mal di schiena, hai il mal di schiena.



Oddio, non discuto sui guai altrui ma il mal di schiena l’ho avuto anch’io, e mica poco: ricordo giornate a scuola dopo nottate trascorse in compagnia di Toradol, Contramal o Cortisone.

Il preside che un giorno mi disse: “Professore, stia a casa”, mentre m’osservava piegato in due – al punto che i ragazzi mi toccavano la gobba prima delle versioni di greco e latino – ed io risposi: “Già, a casa sono solo col mio “compare” che non dà tregua: qui, almeno, mi distraggo un po’…” Quando ce la facevo.

Anch’io feci la domanda per vedere “cosa mi davano”: ricordo il medico legale che mi visitò, il quale mostrò la mia colonna “dal vivo”, osservando “Guardate, guardate voi stessi la colonna…”

Non gliene fregò nulla: appena entrato, una specie di medico che sembrava un ottuagenario colonnello degli Alpini mi ragguagliò: “guardi che noi non diamo nulla”. La commissione di Ceva – per inciso – è famosa per il suo “rigore” ed è ingolfata di ricorsi legali.



A te, invece, la pensione. Non è cambiato nulla: continui a girare per i bar, fra un bianco, un caffè ed una partita a cirulla, solo che non hai più né l’Ape e nemmeno la bici.

Ah sì, qualcosa è cambiato: adesso si chiama “Festa Democratica”.



E qui finisce la cronaca, che spero v’abbia divertito e rattristato: casi veri, persone a me vicine o che ho personalmente conosciuto, ma basta inserire “insegnante suicida” in Google e compare la lista. A me dà 1.210.000 pagine: certo, molte sono dei doppioni, ma sono più di un milione.

L’ultimo caso è quello di Carmine Cerbera, il docente precario di 48 anni che s’è suicidato a Calandrino, nei pressi di Napoli, lasciando moglie e figlie: in molti casi, perdendo il posto, il suicidio rimane l’unico modo di garantire la sopravvivenza alla propria famiglia. Abbiamo il coraggio d’aprire gli occhi di fronte a questa terribile atrocità e continuiamo a leggere. Il ministro Profumo “conosce bene e rispetta”, ma cosa conosce? Cosa rispetta?

E poi ci sono i casi dei piccoli imprenditori: chi si suicida perché non ha più un soldo e chi perché non avrà più anni. Le pensioni d’oro? E chi le tocca…



Lontano da me difendere solo la scuola: la riforma delle pensioni è e rimarrà (forse) l’unico provvedimento di questo governo a rimanere in piedi. Perché? Poiché non è aria fritta: si nutre di carne e sangue, come le bestie immonde.

Abbiamo visto scomparire la pagliacciata dell’abolizione delle Province in una nuvola di fumo: già lo sapevamo, quando “abolisci” qualcosa ma – prima – non fai una seria re-distribuzione delle competenze, vuol dire che sei un mendace.

E poi: perché le Province? E’ tutta l’architettura amministrativa che andrebbe rivista, dai piccoli Comuni alle inutili Regioni (abbiamo vissuto meglio fino al 1979, anno della riforma sanitaria e della loro “consacrazione”, e nessuno ne avvertiva la mancanza) eppure, qualcuno nel 1970 pensò bene di dare attuazione all’articolo della Costituzione che le riguardava. Gli altri 200 articoli, circa, li dimenticarono.



La “Spending Review” è solo una delle tante leggi Finanziarie, una roba inguardabile e buffonesca: ma chi è Enrico Bondi? Da quando, lo Stato, vara un governo “tecnico” e poi fa scrivere una legge economica a terzi? Cos’è, una legge in appalto?



La riforma del lavoro non ha cambiato nulla (in meglio ovviamente): i ragazzi continuano a lavorare di tre mesi in tre mesi (quando capita) oppure giocano a “Il Laureato” nei call centre. In compenso, per i loro padri è più facile essere licenziati.



La vera chicca, però, è stata la creazione della Fornero: ricordiamo che, il governo, sancì che non ci sarebbe stata trattativa con le parti sociali per la previdenza. E per cosa c’è, allora? Per le date del Campionato di Calcio?

Qui, ci sono un paio d’elementi da sottolineare: il primo è la straordinaria (e voluta) inadeguatezza della Fornero, una donna che la osservi e ti chiedi come possa una contadinotta vestita a festa come lei essere salita così in alto.

La Fornero è docente universitaria soltanto perché suo marito, il professor Deaglio, lo ha deciso: altrimenti, una persona con la sua scarsa cultura non sarebbe diventata niente di più che una commercialista qualunque. Quattro conti per l’IRPEF e l’IVA delle piccole “boite” (officine) piemontesi.

Ella stessa, in un pazzesco ardire, si è definita “non preparata” per fare il ministro, con un linguaggio ed un’espressione più utile per descrivere chi salta un appello all’Università, di certo non l’affidamento di un ministero cruciale!

Candidamente, lo ha ammesso: “erano i mercati e l’Europa a volerla (la riforma)”. Senza accorgersi di confessare un altro reato: tradimento. Che esisterebbe se lei avesse avuto un mandato politico (qui, lo ammetto, la cosa è dubbia), e allora tutto torna nelle mani di Napolitano, che ha eseguito la più scellerata alchimia politica ed oggi se ne duole: comprende che la Storia lo giudicherà severamente, come il peggior presidente della Storia Repubblicana.



Napolitano è il secondo aspetto, perché nel momento in cui decise per le “non elezioni” s’assunse una responsabilità istituzionale enorme: oggi, col Paese in macerie per la calata degli Unni finanziari, sa di lasciare in eredità una nazione sconquassata da mille crisi che s’intersecano. Sociali, economiche, finanziarie, industriali, culturali: e, per prima, di fiducia nel futuro. Proprio l’esatto contrario di quello che vorrebbero far credere: Wall Street è salva, Main Street è precipitata nel fango.



Cosa possiamo fare?

Cambiare mentalità, capire come ci hanno portato fino a questo punto: per riscoprire l’unità dei diseredati, dei sans papier ai sans argent. Ai sans vie.

Jiddu Krishnamurti affermava che, in presenza di un grande dolore, si doveva ricostruire minuziosamente la “mappa del dolore” per potersi almeno muovere al suo interno e poter ricostruire. Un percorso analitico, dunque.

Molti credono d’aver capito tutto delle vicende economiche e, soprattutto, degli stratagemmi mediatici necessari per sorreggerle: consentitemi d’avere qualche dubbio.



La nostra divisione è la loro vittoria. Ci hanno lavorato per anni: siamo pressappoco un esperimento biologico, dei cani di Pavlov o poco di più. Divide et impera, questo è sempre l’obiettivo.

Bisogna che i ricchi diventino più ricchi ed i poveri più poveri, ma non possiamo dirlo: perché? Diamine! Noi (Casta, imprenditori, faccendieri, boiardi di stato, prelati, bronto-crati, ecc) siamo i più ricchi e dunque…difendiamo la nostra ricchezza!

Prova: il coefficiente di Gini (1) (che misura la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza) ci pone al 37° posto, ma nel 2005, e stanno molto attenti a non pubblicare più dati (veri). Ah, il 37° posto, comunque, sta fra la Grecia e la Moldavia: gli altri Paesi europei sono molto lontani (2).

Il 10% della popolazione possiede circa metà della ricchezza nazionale: provate un poco ad immaginare, a “selezionare” una persona su 10 – quando siete alla spiaggia, al supermercato – e poi dividere i beni in due. Una casa a noi ed una a lui, e così via: come può reggere un simile squilibrio? Come mascherarlo?

Scateniamo una guerra, anzi, più guerre. La chiameremo “Operazione Polli di Renzo”.



La prima è fra dipendenti pubblici e privati: magistrale nominare ministro Brunetta, un uomo così amato/odiato dove lo vai a trovare? Polarizza subito i consensi/dissensi e ti fa scoppiare la bagarre: gli italiani saranno impegnati nell’azzuffarsi fra idraulici evasori ed impiegati nullafacenti, si scambieranno accuse al vetriolo e si dimenticheranno di noi. Quando sarà ora di votare s’infileranno ordinatamente dietro le schiere, abilmente preparate, destra/sinistra.



La seconda guerra deve mettere a confronto giovani ed anziani, ma qui il lavoro deve essere più attento perché si va ad “operare” all’interno delle famiglie.

Posto che qualsiasi provvedimento deve toccare marginalmente chi è già in pensione – un elettorato enorme, che vota e che non bisogna giocarsi – si deve colpire pesantemente chi è al lavoro. Ma, sempre, con la giustificazione della “disparità” fra chi è garantito e chi no: togliendo, ovviamente, a chi è garantito senza aumentare le garanzie per chi non lo era.

Qui è essenziale l’aiuto dei sindacati: daremo l’impressione di due sindacati “venduti” (CISL ed UIL) e di uno “che lotta” ma sia chiaro, è solo una montatura. La CGIL è saldamente controllata dal PD, solo alcune schegge impazzite s’allontanano.

Qualcuno scopre i nostri trucchi, ma è destinato all’anonimato (3), poiché il fuoco di fila nei confronti dei giovani è, per fortuna, intenso.



Per prima cosa bisogna agire sulla naturale frizione fra generazioni: i genitori (che sono coloro che li mantengono fin oltre i 30 anni!) devono essere presentati come retrogradi e conservatori, come sempre.

Per i giovani, devono aumentare le trasmissioni Tv nelle quali è il successo la chiave vincente: non sulla bravura, per carità! Solo bellezza, qualche bravura ma in campi secondari come la musica o la canzone: insomma, più dei fenomeni da baraccone che vera bravura, così tutti la bevono. In compenso, molta attenzione a modelli che premiano la bellezza e basta, meglio se un po’ volgare.

In questo modo otterremo una continua eccitazione nei confronti delle vicende (virtuali) che coinvolgono gli adolescenti “di successo”: essi vedranno genitori, insegnanti ed adulti in genere come un modello perdente e saranno succubi della continua “acquolina in bocca”, proprio come i cani di Pavlov.

Qualcuno s’accorge del trucco e rimane schifato? Ragazzi, le porte dell’emigrazione sono sempre aperte…



Ci sono poi una serie di guerre “secondarie” che bisogna alimentare: TAV/No-TAV, Ponte-No-Ponte, ecc.

Che se ne parli, bene o male, ma che se ne parli: mai, però, discorsi approfonditi sull’utilità di quelle opere (che, siamo matti?), solo cronache di botte e qualche gossip, se si trova.



Intanto, osservo dal finestrino dell’auto l’uomo con la paletta dei lavori stradali: quanti anni avrà? Mi sembra vecchio, più vecchio di me che ne ho già 62. O è solo mal tenuto? Ha lo sguardo spento: meno male – penso fra me e me – che lo mettono a fermare le auto con la paletta…c’è un giovane, ma è sulla pala meccanica che sta lavorando…accanto, un nero appoggiato alla pala.

Ma come si fa, a quell’età, a restare otto ore al freddo, in piedi: e se hai veramente mal di schiena? Gli diranno, come hanno detto a me, “noi non diamo niente”? E cosa farà?



C’è una generale incomprensione della falcidia sociale che è stata la riforma Fornero: se lo chiedi ai quaranta-cinquantenni ti rispondono “tanto io non c’arrivo”, “per noi non ci sarà più”, i giovani “io morirò prima”, eccetera.

E’ una bella rimozione collettiva del dolore, per sopravvivere, come succede negli ambienti estremi: mai pensare al dopodomani, già sopravvivere oggi è dura. Eppure arriverà, inesorabile: anzi, c’è da sperare d’arrivarci. Cos’è?



Se ti va bene è soltanto un malessere generale, una stanchezza che prima non provavi: hai bisogno di fermarti a riposare. Quando avevo 40 anni avevo un appezzamento di terreno con gli albicocchi, 37 per la precisione: in un mesetto li potavo tutti. Ora ne ho uno e ci metto giorni e giorni a potarlo.

Non parliamo della scuola: passavo le notti a correggere – quasi mi piaceva perché c’era la Coppa America di Vela e tenevo la Tv accesa – adesso, dopo un “pacco” di relazioni m’addormento. I ragazzi li sopporti per un paio d’ore, poi hai bisogno di una boccata d’aria, di sederti tranquillo in un posto senza rumore, eppure ci devi stare.

Qui interviene un’altra frattura: c’è chi pensa che solo chi ha un lavoro manuale sia “usurato”. E’ un errore di percezione: eppure, tanti ci cascano.



I casi sono tanti e molto diversi: nel privato, ad esempio, viene spesso usata la legge sull’amianto per pensionare persone (gli anni di contribuzione raddoppiano) che l’amianto l’hanno appena sfiorato. Chi l’ha lavorato veramente – la Eternit di Alessandria, l’ACNA di Cengio – è morto da tempo oppure l’ha solo visto, e così sopravvivrà, come capita all’ACNA dove ci sono pensionati di 50 anni.

La legge sull’amianto non si applica nel pubblico, eppure nei laboratori l’amianto c’era: nel privato ne hanno goduto anche gli impiegati. E’ stata una valvola di sfogo per mandare in pensione persone della quali il ciclo produttivo non sapeva più che farsene: è arrivata la Fornero e sono diventati “esodati”.



Nel pubblico sono “soprannumerari”, ma è stata la Gelmini (la folle) a dimezzare le ore di laboratorio negli Istituti Tecnici: un’ora la settimana. Mi dite voi che si fa? Profumo ha confermato tutto, salvo promettere “la priorità e l’importanza dell’istruzione tecnica e professionale”. Una buffonata, visto che la quota/PIL che l’Italia destina alla scuola è sensibilmente inferiore a quello che destinano gli altri Paesi Europei (5).

Eppure gli operai ti guardano come un privilegiato se racconti che non ce la fai più a tenere una classe, che esci col mal di testa ogni giorno: tu capisci la fatica fisica, loro non capiscono la fatica mentale.

E’ un’altra affermazione dell’operazione Polli di Renzo che va a segno.

Cosa devono farci pagare?



La scarsa risposta che gli italiani hanno dato alla previdenza complementare (6), i quali non hanno consegnato diligentemente il loro TFR ai forzieri delle banche: il cambio – speriamo che la capiscano, afferma l’INPS – hanno ricevuto la controriforma delle pensioni più pesante d’Europa.

Converrebbe chiedere a Mastropasqua (presidente INPS) che mestiere fa, visto che ha 25 incarichi per un milione di euro l’anno di compenso (8).

Giocando sull’aumento della speranza di vita – che è stata pressappoco di un anno in un decennio (7) – raccontano d’incrementi pazzeschi: le statistiche sono le peggior menzogne. Quanto ne risentirà la qualità del lavoro?



Già oggi, la scuola – che è il settore che conosco – è al lumicino: nonostante le apparenze, le dichiarazioni, le promesse, ecc, fra i corridoi a nessuno frega più niente. E ti credo, hanno alzato l’età della pensione di 5 anni in un botto! Rovinando la vita alle persone che s’erano già preparate il “passaggio”, con un avviso dato con l’anticipo di sei mesi!

I colleghi, tristissimi, i conti se li sono fatti: incrociando la riforma Fornero con quella Sacconi, dalla prima ricavi 66 anni, ma dalla seconda una tabella di marcia – tre mesi la volta in più – che ti porta fino a 70 ed oltre.

La vita che ti viene concessa, dopo, è quella col pannolone: sì, anche per i giovani che fanno finta di non pensarci.



A loro frega meno ancora: si preparano ad una scuola privata (finanziata dallo Stato) d’elite nella quale mandare i loro rampolli…degli altri…e chi se ne frega! La Sanità? Noi paghiamo, gli altri…quando ascolto mia cugina, in Francia, raccontare che tutte le medicine sono gratis, tutti i ricoveri sono gratis, tutte le visite specialistiche sono gratis o rimborsate al 90% mi prende lo sconforto. Anche da noi era così: 40 anni fa.



Il danno, corrispondente ai due “e chi se ne frega”, incrociati, sarà lampante fra qualche anno: prepariamoci ad una società sempre più violenta, dove si uccide per uno sguardo ad una ragazza o per rubare una collanina d’oro ad una vecchietta. Succede già oggi: moltiplicate, gente, moltiplicate…



E così andremo a votare: a destra il Partito dei Briganti, al centro quello del Rotary…a sinistra? Non saprei se definirlo dei Ladroni – rubano tutti – ma quello dei Falsoni senza dubbio.

Nella generale ingiustizia e protervia della riforma Fornero c’è anche un errore, sì, proprio un errore che sta condannando 3.500 persone che avevano diritto ad andare in pensione: ci sono anch’io fra quei 3.500, non mi nascondo dietro ad un dito.

Lo hanno riconosciuto tutti – persino “a denti stretti” la Fornero – e c’è una memoria giuridica dell’ex sen. Imposimato (oltretutto, Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione) la quale ha un titolo che è tutto un programma: Caro Polillo “Quota 96” ha ragione e voi torto, marcio (11). Polillo è sottosegretario all’Economia.

Semplicemente, si sono “scordati” che la scuola va ad anno scolastico, non ad anno solare: tutti i calcoli vanno quindi riferiti al 31 Agosto, non al 31 Gennaio, che per il calendario scolastico (dal quale dipendono tutte le operazioni sul personale) è una data senza senso.



Premesso che è tutto l’impianto della riforma Fornero ad essere disastroso, alcuni parlamentari si sono battuti per sanare, almeno, quello che a tutti gli effetti è solo un errore.

Essi sono Manuela Ghizzoni, Mariangela Bastico e Vincenzo Vita, tutti del PD: nessuno di loro è più in lista, nonostante i mille trucchi per raggirare chi ha votato alle primarie (9).



Auspico che il prossimo governo di centro sinistra, se otterrà i voti necessari, con Bersani premier, assuma “quota96” come impegno prioritario. Auspico, inoltre, che ci sia in parlamento chi, come me e Manuela Ghizzoni, voglia condurre con altrettanto impegno e determinazione la nostra-vostra battaglia.”



È ufficiale: Matteo Richetti ha vinto le primarie del Pd a Modena…Sconfitte le deputate uscenti Manuela Ghizzoni e Mariangela Bastico.”



Non andrà in Parlamento, e nel frattempo si dimette anche da segretario dell’Umbria Lamberto Bottini, arrivato penultimo. Non senza mandare accuse molto pesanti: “In occasione di queste primarie, si manifesta infatti con chiarezza un atteggiamento protagonista e pervasivo di alcuni vertici istituzionali che hanno giocato una partita dal mio punto di vista discutibile per il ruolo di governo che compete alle istituzioni, che ha influito in maniera decisiva sui risultati della consultazione”.”

(Fonte: L'Unità)

Questo ci chiarisce qualcosa del futuro: Berlusconi, da parte sua, farà l’accordo con la Lega (conviene ad entrambi) per poi mollarla ed andare con Monti, Monti starà dov’è (non serve altro) perché Bersani, dopo le elezioni, mollerà Vendola e qualche altro rompiscatole come Fassina. Preventivamente, si cerca d’escludere le “ali” estreme: i montani – tanto se ne andranno con Monti, Bersani lo sa – e, più pericolosi, una schiera di prim’attori e di peones che ritengono ancora che i diritti delle persone siano preminenti rispetto a quelli delle banche. Anche se poi – per onore di verità – hanno votato tutte le leggi di Monti.



Perciò, mentre Berlusconi sputa su Monti, Bersani tace per non scoprire troppo le sue intenzioni – ossia che tutto continuerà come prima – e Scalfari da penoso è diventato vomitevole (10), quando afferma di essere “cambiato” nei confronti di Monti (glielo avrà detto De Benedetti?) e noi già intravediamo il nostro futuro.

Soltanto se i “contro Monti” – Lega, Grillo, Ingroia e domani Vendola – saranno abbastanza da creare grattacapi si può sperare qualcosa, soprattutto mettendosi in testa che non andare a votare, a loro, non frega nulla: governerebbero col 30% dei votanti, e vi direbbero pure che nelle “grandi democrazie” funziona così. Per loro, ovviamente.