Tutti a bordo della carrozza reale
Racconta Horace Walpole nelle sue Memorie come un giorno Luigi XV, mentre andava a caccia, accompagnato dal duca di Choiseul, volle mettere alla prova il suo fidato e sagace ministro chiedendogli di indovinare il prezzo della lussuosa carrozza sulla quale stavano viaggiando.
Choiseul sapeva che quella magnificenza poteva costare 3 o 4 mila libbre d’oro, ma conoscendo le “creste” di corte dei fornitori della real casa raddoppiò la cifra e azzardò: 8 mila libbre. Ma, “30 mila”, rispose invece, sornione, Luigi XV.
Il ministro trasecolò: è uno scandalo, un’indecenza.
Quei profittatori, saccheggiando l’erario con le loro furfanterie avrebbero mandato in rovina il regno! E il Re di rimando: Immaginate ora, duca, di avere pieni poteri per farmi pagare questa carrozza al prezzo giusto.
Choiseul ci pensa e passa in rassegna gli anelli della catena che fa capo al veicolo reale: favori, protezioni, intermediazioni, complicità, ricatti, elargizioni e corruzione, saldati indissolubilmente in un intreccio che tiene insieme maglia per maglia, l’intera nazione.
Costernato, scuote la testa: il Re ha ragione, bisogna lasciar fare, perché tutto resti com’è. Altrimenti a partire da una carrozza, si provocherebbe la caduta della Francia.
Le compagini governative che si sono avvicendate in Italia avranno magari annoverato qualche duca di Choiseul, che all’atto del giuramento si sarà prefigurato di far pulizia, di spezzare quella catena, di rompere quei patti opachi di correità o indulgenza.
Ma probabilmente, proprio come il Duca, peraltro nominato grazie alla benevole protezione della favorita del Re, ed infatti licenziato quando la Pompadour perse con le sue leggendarie grazie l’affetto del monarca, avrà pensato che ne andava della saldezza dello Stato, che certi scossoni sono peggio di un terremoto e non portano quei benefici che invece un sisma può procurare, che tutti applaudono quando i carabinieri vanno a arrestare acclarati marioli, amministratori sleali, imprenditori sfrontati. Ma che poi, se da Versailles e per li rami la pulizia scende fino a esattori poco scrupolosi, falsi invalidi, funzionari che chiudono un occhio, controllori che ne chiudono due, e via via impiegati, insegnanti, bidelli, infermieri, medici sparsi accidiosamente in tutta la nazione e che vivacchiano a spese della carrozza del re, allora, avrà pensato il de Choiseul nostrano, crollerebbe l’impalcatura di abusi di scala, che tiene in piedi l’economia della sopravvivenza, vista come diritto inalienabile, oltre che principale comparto produttivo del Paese.
Ed infatti, in questa caccia al tesoro disperata alla ricerca di ogni spicciolo, che ci prepara a nuovi stenti e privazioni, non si alza la voce di nessun duca a ricordare che la corruzione costa 60 miliardi l’anno, che se nelle tasche di ogni italiano, neonati compresi, venissero rimessi i mille euro l’anno sottratti dai corrotti si potrebbero vincere molte sfide, a cominciare dalla cancellazione degli interessi sul debito pubblico. O dotare le città di un trasporto pubblico degno di questo nome (costa 14 miliardi), proteggerci da frane e alluvioni (2,5 miliardi), mettere in sicurezza gli edifici scolastici (10 miliardi), coprire il costo degli ammortizzatori sociali (20 miliardi). E cancellare l’Imu sulla prima casa (3 miliardi), senza farci ripagare sanguinosamente la propaganda dei bricconi.
Per il giovane Letta, allevato in una dinastia che vanta illustri sperimentazioni perfino in seno alla Croce Rossa, e per il suo governo, la lotta alla corruzione deve sembrare uno di quei cascami ideologici, che non ci si può permettere di questi tempi, perché richiede tempo e stravolgimenti in assetti consolidati e in equilibri precari che devono garantire alla tenuta instabile delle larghe e incerte intese che stanno strette alla morale. Meglio rompere i maialini di ceramica, meglio affondare le mani nelle tasche sempre più vuote, piuttosto che mettere mano alla violazione quotidiana della legalità, diradando quella adesione “culturale” di larghi strati della nostra società ad un sistema di illiceità diffusa, ben nutrita e alimentata da pensieri, legislazione e opere, trasversalmente mutuate e imitate, in un intreccio tra mafie e corruzione, nel quale la politica ha avuto e continua ad avere un ruolo “pedagogico” devastante, scaricando il contrasto all’illegalità su reati minori o inventati e, quindi, sulle fasce più deboli ed emarginate della società ed aiutando i potenti a continuare indisturbati nei loro malaffari.
Pochi mesi fa è finito in manette uno dei “padroni del Veneto”, l’imprenditore veneziano Piergiorgio Baita, presidente della Mantovani Spa, asso pigliatutto delle costruzioni venete soprattutto regionali e in generale pubbliche, in project financing e non, e la principale del Consorzio Venezia Nuova impegnato nei lavori per il Mose. Si dice che in piena Mani Pulite, Baita indagato si salvò spifferando. Ma adesso, cosa potrebbe dire che non si sappia già? Le imprese sono tante ma poche si accaparrano i grossi lavori, tutte le altre fanno la coda per elemosinare un sub-appalto in un clima di veleni, accordi opachi ma sfrontati, arbitrarietà e nel quale si combinano economia formale e criminale, così strettamente intrecciati da diventare indistinguibili, come quelli realizzati in Lombardia per l’amico di Roberto Formigoni, quel Pierangelo Daccò che gli pagava le vacanze ma poi viaggiava in corsia di sorpasso quand’era il momento di assicurarsi gli appalti regionali. come accade diffusamente, in regime bipartisan, che si sa il profitto facile lega più di qualsiasi collante e a tutte le latitudini.
Uno degli effetti dello stato di necessità che pesa sul Paese come un tallone di ferro, è la illusorietà e la discrezionalità della “morale” retrocessa nel migliore dei casi a opportunità, condizionata da ragioni di opportunità, piegata all’emergenza, quella che infila surrettiziamente nell’omonimo decreto un rifinanziamento proprio dell’attività immobile delle dighe mobili del Mose a beneficio della sua cosca di imprese in una città che intanto dinamicamente affonda sempre di più, allegoria inquietante del Paese.