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lunedì 3 aprile 2017

FULVIO SCAGLIONE

Fulvio Scaglione

Nato nel 1957, è un giornalista professionista dal 1983.
Dal 2000 al 2016  è stato vice-direttore del settimanale “Famiglia Cristiana”, di cui nel 2010 ha varato l’edizione on-line del giornale.
Corrispondente da Mosca, ha seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l’Afghanistan, l’Iraq e i temi del Medio Oriente.
Ha pubblicato i seguenti libri: “Bye Bye Baghdad” (Fratelli Frilli Editori, 2003) e “La Russia è tornata” (Boroli Editore, 2005), “I cristiani e il Medio Oriente” (Edizioni San Paolo, 2008), “Il patto con il diavolo” (Rizzoli, 2016).
Continua a collaborare con Famiglia Cristiana ma anche con Avvenire, Eco di Bergamo, Limes, EastWest, e online con Occhi della guerra, L’Inkiesta, Micromega, Eastonline e Terrasanta.Net.
Fulvio Scaglione, giornalista esperto di politica estera con una grande esperienza sul campo, collabora con diversi giornali e riviste. Esperto di Medio Oriente e Russia, ha recentemente pubblicato un libro sul Medio Oriente (Il Patto con il diavolo. Come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo e all’Isis, Rizzoli, 2016, pp. 203) in cui unisce abilmente ricostruzione storica ed approccio divulgativo, fornendo chiavi di lettura per il presente in controtendenza con il discorso dominante a cui l’opinione pubblica è abituata.
Scaglione affronta la complessa storia mediorientale dagli accordi segreti di Sykes-Picot ai più recenti avvenimenti siro-iracheni, passando per la fondazione del regno saudita che ha avuto una grande influenza negli sviluppi futuri della regione. Abbiamo avuto il piacere di intervistare Fulvio Scaglione (che proprio poche settimane fa ha intervistato Bashar al-Assad su “Avvenire”) a proposito dei più recenti eventi mediorientali, provando a fare anche qualche previsione per il futuro.
Nel suo libro mette chiaramente in luce la connivenza tra potenze occidentali e paesi finanziatori di gruppi jihadisti. A pagina 192 si legge: “Abbiamo sempre agito, noi occidentali, su questo doppio binario, con una morale per gli amici e una per i nemici, sperando che nessuno se ne accorgesse”. Ritiene che, alla luce dei disastri mediorientali, i paesi europei debbano mutare paradigma geopolitico? L’Italia ha possibilità, secondo lei, di rivendicare una politica estera maggiormente autonoma in questo senso?
Credo che un cambiamento di paradigma politico sia non solo necessario ma indifferibile. Non è più possibile credere, come abbiamo fatto per decenni, che i problemi del Medio Oriente restino in Medio Oriente. I problemi del Medio Oriente, che abbiamo largamente contribuito a creare (nella più benevola delle ipotesi, a rendere più acuti), ormai dilagano rispetto ai confini della regione e ci investono sempre più spesso.
Pensiamo, per fare un solo esempio, alla questione dei profughi siriani: destabilizza Paesi come Libano e Giordania, si riversa sulla Turchia, da lì passa in Europa. Per contenerla, visto che ormai noi europei siamo degli eunuchi politici, stringiamo accordi con la Turchia e contribuiamo a potenziare e finanziare un regime, quello di Recep Erdogan, che nello stesso tempo consideriamo oscurantista e dittatoriale, oltre che in odore di Fratelli Musulmani. Il tutto mentre temiamo la radicalizzazione dei musulmani che vivono in Europa, tra i quali ci sono appunto milioni di turchi. Per non parlare dell’Isis.
Tutto ciò che di serio sappiamo dell’Isis porta a una sola conclusione: è un movimento terroristico ispirato, finanziato e diretto dalle petromonarchie del Golfo Persico. Nel libro “Il patto con il diavolo” mi diffondo su questo tema, con ampia documentazione. Però queste petromonarchie sono nostre amiche, fanno affari con noi. E noi le copriamo dal punto di vista politico (si veda il nulla che diciamo a proposito delle repressioni saudite contro la Primavera del Bahrein e delle stragi saudite nello Yemen), oltre ad armarle a profusione.
Poi, però, a ogni attentato dell’Isis in Europa strilliamo allo scontro di civiltà, come se non sapessimo da dove arrivano quegli attentatori. Tutto questo è così scoperto, così marchiano, che farebbe persino ridere, se non fosse una tragedia.
Il mondo islamico è drammaticamente diviso al proprio interno, in una lotta essenzialmente tra musulmani. Le contese mediorientali hanno una dimensione sia geopolitica che settaria (si parla spesso di un “asse sciita” contro un “asse sunnita”). Ritiene preminente la dimensione settaria o quella geopolitica che vede coinvolte grandi e medie potenze, unite spesso da instabili convergenze di interesse?
Assolutamente quella geopolitica. La rivalità tra sunniti e sciiti (che sarebbe più corretto definire: il tentativo dei sunniti di liquidare la minoranza sciita) è vecchia di 14 secoli, ma i grandi scontri si sono avuti tutti o mille e quattrocento anni fa o negli ultimi decenni.
Ci sarà un perché, no? La realtà è che nel 1916 le potenze occidentali, allora Francia e Gran Bretagna, smantellarono un’organizzazione che esisteva da secoli, l’impero ottomano, e la sostituirono con il Trattato Sykes-Picot, cioè con il nulla. Garantirono in altre parole l’instabilità di una regione che da allora abbiamo potuto tenere sotto controllo, e sfruttare per i nostri interessi economici e politici, solo facendola progressivamente a pezzi e incentivando il settarismo, politico e religioso.
Non a caso, a parte le varie guerre, negli ultimissimi anni ci sono stati tentativi di minare, con embarghi, colpi di Stato e simili, anche i tre veri Stati-nazione del Medio Oriente: l’Egitto, con il velato appoggio al regime dei Fratelli Musulmani; la Turchia, con le vicende che sappiamo; e l’Iran.
Alcuni analisti hanno visto nella politica estera mediorientale obamiana la volontà di trovare un kissingeriano equilibrio di potenza in Medio Oriente. Altri analisti hanno messo in luce la geopolitica del caos americana, intenta a fomentare o placare i conflitti in base alle esigenze statunitensi. Qual è la sua opinione in merito?
Obama non era così attento al Medio Oriente. La sua priorità, più volte dichiarata, era l’Asia e il contrasto all’espansione politica e commerciale della Cina. In Medio Oriente non ha fatto altro che seguire i principi generali dell’unica vera strategia che informa la politica estera Usa dal 1989, quando il presidente George Bush varò la cosiddetta “esportazione della democrazia”.
Con quella strategia, seguita da Clinton, Bush Junior e Obama, cioè da ogni presidente dopo di lui a prescindere dal colore di partito, gli Usa hanno cambiato l’Europa dell’Est (che peraltro stava già cambiando), i Balcani (divisi e settarizzati, come si diceva: dove c’era una grande entità multietnica e multireligiosa ora ci sono Stati diversi per i cristiani ortodossi, i cattolici, i musulmani…) e il Medio Oriente. Dove cambiare non vuol dire necessariamente migliorare. A volte vuol solo dire disgregare. Come in Ucraina.
La politica estera di Donald Trump è avvolta da una nebbia di incertezza. Non sappiamo ancora con sicurezza come si relazionerà con importanti attori regionali (Iran, Arabia Saudita e Turchia in primis). Non ci è dato sapere neanche se riuscirà a raggiungere nel lungo termine un accordo di ampio respiro con la Russia. Qual è la sua opinione sul futuro delle relazioni tra Usa e Russia?
In campagna elettorale, sulla politica estera, Trump ha detto molte cose giuste. O almeno auspicabili: ricomporre le relazioni con la Russia è una necessità di tutti, non di Trump; concentrarsi sull’Isis, e quindi anche sui  suoi mandanti, è una necessità di tutti. Questi propositi, ovviamente, hanno disturbato molti, che si sono prontamente mobilitati contro il nuovo Presidente.
Di nuovo, al di là del colore politico, perché l’esportazione della democrazia, come si diceva, non ha mai avuto colore. Ecco perché, in fondo, Barack Obama e il falco repubblicano neocon John McCain hanno detto le stesse cose su Trump. E poi, ovviamente, c’è l’inesperienza e la confusione dello stesso Trump.
Ho la sensazione che il cosiddetto “muslim ban” e certi altri provvedimenti, che sembrano fatti apposta per compiacere l’elettorato dell’America “profonda”, non ci sarebbero stati se Trump avesse potuto insediarsi in un altro clima. Ma non lo so ed è un problema di Trump. In ogni caso, se abbandona quei propositi elettorali, Trump è finito. Se li vuole sostenere, si prepari a dare battaglia.
Nel suo libro dedica ampio spazio ai cristiani del Medio Oriente. A pagina 154 si legge a proposito delle comunità cristiane: “Sono dunque, anche in questo caso, un ponte essenziale. Ma bisogna aver voglia di attraversarlo”. Ritiene che le potenze occidentali debbano ascoltare maggiormente i cristiani dei paesi mediorientali? Come si spiegano le simpatie dei cristiani verso la politica estera russa (spesso demonizzata nei paesi occidentali)?
Ho sempre in mente il caso di fra Ibrahim, francescano e parroco della chiesa di San Francesco ad Aleppo. Lui ha vissuto tutti i quasi quattro anni della guerra ad Aleppo, in una chiesa colpita cinque o sei volte l’anno da razzi e colpi di mortaio. Ebbene, anche se veniva due o tre volte l’anno in Italia, fra Ibrahim non è mai stato intervistato dai nostri grandi giornali.
Curioso, no? Uno che di Aleppo e dei suoi drammi sapeva tutto… E’ un caso emblematico della situazione dei cristiani del Medio Oriente: siccome dicono cose diverse da quelle a cui vogliamo credere, cose sperimentate in prima persona, noi semplicemente togliamo loro la parola. Questa è una delle ragioni per cui non capiamo nulla del Medio Oriente.
I cristiani sono lì da molti secoli prima dei musulmani, quindi sono quelli che conoscono meglio la regione. Sono quelli che, nei secoli, hanno saputo sviluppare un modus vivendi con la società islamica, che non è una delle più facili. E sono quelli che hanno i nostri stessi valori. Eppure sono proprio quelli che rifiutiamo di ascoltare. Ha senso?

A cura di Federico La Mattina
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