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lunedì 31 agosto 2015

IRAK...

Fabbricate a Roma in maniera goffa e artigianale
le prove su Saddam. 

Storia del falso dossier uranio che il Sismi spedì alla Cia
Doppiogiochisti e dilettanti
tutti gli italiani del Nigergate

L'ammissione di Martino alla stampa inglese: "Americani e italiani hanno
lavorato insieme. E' stata un'operazione di disinformazione"
di CARLO BONINI e GIUSEPPE D'AVANZO



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Silvio Berlusconi e George W. Bush. Dopo l'11 settembre la Casa Bianca chiese a tutti gli alleati, e in particolare all'Italia, notizie e prove che evidenziassero la pericolosità sociale di Saddam Hussein 





ROMA - L'intervento militare in Iraq è stato giustificato da due rivelazioni: Saddam Hussein ha tentato di procurarsi uranio grezzo (yellowcake) in Niger (1) per arricchirlo con centrifughe costruite con tubi di alluminio importati dall'Europa (2). Alla costruzione delle due "bufale" (non si troverà traccia in Iraq né di uranio grezzo né di centrifughe), collaborano il governo italiano e la sua intelligence militare. Repubblica ha cercato di ricostruire chi, come, dove e quando ha lavorato e "disseminato" alle intelligence inglese e americana il falso dossier che è valso una guerra. 

Sono le stesse "bufale" che Judith Miller, la reporter che "ha tradito il suo giornale", pubblica (con Michael Gordon) l'8 settembre 2002. In una lunga inchiesta sul New York Times, Miller racconta dei tubi di alluminio con cui Saddam avrebbe potuto realizzare l'arma atomica. E' l'argomento che i "falchi" dell'Amministrazione Bush attendono. 

La "danza di guerra", che segue allo scoop di Judith Miller, appare a un attento media watcher come Roberto Reale ("Ultime notizie") "uno spettacolo preparato con cura". 

Condoleezza Rice, allora consigliere per la Sicurezza nazionale alla Casa Bianca, dice: "Non vogliamo che la pistola fumante abbia l'aspetto di una nube a forma di fungo" (Cnn). Un minaccioso Dick Cheney rincara la dose a Meet the press: "Sappiamo, con assoluta certezza, che Saddam sta usando le sue strutture tecniche e commerciali per acquistare il materiale necessario ad arricchire l'uranio per costruire l'arma nucleare". E' l'inizio di un'escalation di paura. 

26 settembre 2002. Colin Powell avverte il Senato: "Il tentativo iracheno di ottenere l'uranio è la prova delle sue ambizioni nucleari". 

19 dicembre 2002. L'informazione sul Niger e l'uranio è inclusa nelle tre pagine del President daily brief che ogni giorno Cia e Dipartimento di Stato preparano per George W. Bush. L'ambasciatore alle Nazioni Unite, John Negroponte, ci mette il sigillo: "Perché l'Iraq nasconde l'acquisto di uranio nigerino?". 

28 gennaio 2003. George W. Bush scandisce le 16 parole che sono una dichiarazione di guerra: "Il governo inglese ha appreso che Saddam Hussein ha recentemente cercato di acquisire significative quantità di uranio dall'Africa". 

La farina di questo sacco è romana. 
Il coinvolgimento italiano negli eventi che precedono l'invasione dell'Iraq ha, sin qui, trovato nella distrazione generale un solitario e grottesco protagonista in un tale che si chiama Rocco Martino, "di Raffaele e America Ventrici, nato a Tropea (Catanzaro) il 20 settembre 1938". 

Smascherato dalla stampa inglese (Financial Times, Sunday Times) nell'estate del 2004, Rocco Martino vuota il sacco: "E' vero, c'è la mia mano nella disseminazione di quei documenti (sull'uranio nigerino), ma io sono stato ingannato. Dietro questa storia ci sono, insieme, americani e italiani. Si è trattato di un'operazione di disinformazione". 

Confessione non lontana dalla verità, ma incompleta. 
Nasconde gli architetti dell'"operazione". Rocco Martino è a occhio nudo soltanto una pedina. Come i suoi compari. Chi tira i fili delle loro mediocri avventure? Per saperlo bisogna, in ogni caso, cominciare da quel buffo tipo venuto a Roma da Tropea. 

Rocco Martino è un carabiniere fallito. Uno spione disonesto. Intorno a lui si avverte l'aura del briccone anche se non si conosce la sua pasticciata storia. Capitano nell'intelligence politico-militare tra il '76 e il '77 "allontanato per difetti di comportamento". Nell'85 arrestato per estorsione in Italia. Nel '93 arrestato in Germania con assegni rubati. E tuttavia, a sentire i funzionari del ministero della Difesa, "fino al 1999" collabora ancora con il Sismi. E' un doppiogiochista. 

Prende dimora in Lussemburgo al 3 di Rue Hoehl, Sandweiler. Lavora a stipendio fisso per l'intelligence francese protetto da un'agenzia di consulenza, "Security development organization office". O, meglio lavora anche per i francesi. Servo di due padroni, Rocco si arrabatta. Vende ai francesi notizie sugli italiani e agli italiani notizie raccolte dai i francesi. "Il mio mestiere è questo. Io vendo informazioni". 
Nel 1999, il gaudente Rocco è a corto di quattrini. Come gli capita quando è "a secco", ne escogita una delle sue. La pensata gli sembra brillante e priva di rischi. La scintilla che lo illumina è la difficoltà dei francesi in Niger. 

Per farla breve. I francesi, tra il 1999 e il 2000, si accorgono che c'è chi si è rimesso al lavoro nelle miniere dismesse per avviare un prospero commercio clandestino di uranio. A quali Paesi i contrabbandieri lo stanno vendendo? I francesi cercano le risposte. Rocco Martino annusa l'affare. 

Chiede aiuto a un suo vecchio amico del Sismi. Antonio Nucera. Carabiniere come Rocco, Antonio è il vicecapo del centro Sismi di viale Pasteur, a Roma. 
Fa capo alla 1^ e 8^ divisione (contrasto al traffico d'armi e tecnologie; controspionaggio sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa "nel quadrante africano e mediorientale"). 

E' una sezione che si è data molto da fare alla fine degli anni '80 mettendo il sale sulla coda ai tanti spioni che Saddam ha sguinzagliato per il mondo prima dell'invasione del Kuwait. "Con qualche successo", a sentire un alto funzionario dell'intelligence italiana che, all'epoca, lavorava per quella divisione. L'agente ricorda: "Ci riuscì di mettere le mani sui cifrari nigerini e su un telex dell'ambasciatore Adamou Chékou che annunciava al ministero degli esteri di Niamey (è la capitale del Niger) la missione di Wissam Al Zahawie, ambasciatore iracheno presso la Santa Sede, "in qualità di rappresentante di Saddam Hussein". 

Non fu l'unica operazione. Nel porto di Trieste riuscimmo, per dire, a sequestrare dell'acciaio marangin (garantisce un'ottima resistenza anche a temperature oltre i 1000 gradi). Secondo noi era destinato alla costruzione della cascata di centrifughe necessaria a separare i costituenti dell'uranio. Le informazioni sulla proliferazione nucleare irachena venivano scambiate, già alla fine degli anni '80, soprattutto con gli inglesi dell'MI6, i migliori. Lì lavorava, un sincero amico dell'Italia come Hamilton Mac Millan, peraltro, l'agente segreto che ha iniziato Francesco Cossiga ai misteri dello spionaggio quando era il "residente" inglese a Roma". 

Nucera decide di dare una mano al suo amico Rocco. Quello gliela mette giù facile. Non c'è nulla che mi puoi dare, un'informazione, un contatto buono con i nigerini? Basta qualsiasi cosa. I francesi sono assetati come viandanti nel deserto. Vogliono sapere chi sta comprando sotto banco il "loro" uranio. Sono disposti a pagare bene, per saperlo. 

Nell'archivio della divisione del Sismi, come abbiamo visto, ci sono documenti utili a cucinare la frittata, guadagnando qualche soldo. C'è il telex dell'ambasciatore e qualcos'altro si può sempre rimediare nell'ambasciata nigerina a Roma di via Baiamonti 10. Riconosce, con Repubblica, il direttore del Sismi, Nicolò Pollari: "Nucera vuole aiutare l'amico. Invita così una Fonte del Servizio - niente di che, capiamoci; al libro paga sì, ma ormai improduttiva - a dare una mano a Martino". La Fonte del Servizio lavora all'ambasciata del Niger a Roma. E' messa male. Vivacchia nel retrobottega del controspionaggio. Non ha un fisso mensile dall'intelligence italiana. E' a cottimo, per così dire. 

Qui l'informazione, qui il denaro. Comunque poca cosa, pochi centoni. Anche quelli, nel 2000, sono in pericolo. Da qualche tempo, che comincia ad essere sciaguratamente lungo, non ha nulla da spiare e dunque nulla da vendere. 

Chiamiamo la fonte "la Signora". 
Ora dovreste vederla, "la Signora". Sessant'anni, di più e non di meno. Una faccia che deve essere stata bella e ora è un foglio spiegazzato. La si può dire factotum dell'ambasciata nigerina. Aspetto da vecchia zia paziente. Accento francese. Occhi ammiccanti e complici. Parla sempre sottovoce. Anche se dice "buongiorno", lo soffia come un piccolo fiato misterioso che sembra doverti rivelare innominabili verità. Anche "la Signora" ha bisogno di denaro. 

Nucera combina l'incontro. Rocco e "la Signora" non ci mettono molto ad accordarsi. Qualcosa si può fare. Quel Nucera non è forse il suo "contatto" ufficiale al Sismi? E allora perché "la Signora" non deve pensare che sia il Servizio a volere che faccia questa cosa? Che insomma questa cosa sia utile alla Ditta? 
Rocco e "la Signora", astuti vendifumo, con la benedizione di Nucera, trovano l'accordo. Qualche carta da prendere e vendere c'è. Occorre però la collaborazione di un nigerino. La Signora indica l'uomo giusto. E' il primo consigliere di ambasciata Zakaria Yaou Maiga. Come rivela Pollari, "quel Maiga spende sei volte quel che guadagna". 

La combriccola di garbuglioni gaudenti a corto di spiccioli è pronta all'azione. Rocco Martino, la Signora, Zakaria Yaou Maiga. Nucera, lo vediamo appena un passo indietro nell'ombra. Maiga si organizza così. Attende che l'ambasciata chiuda i battenti per il Capodanno del 2001. Finge un'intrusione con furto. Quando il 2 gennaio 2001, di buon mattino, il secondo segretario per gli affari amministrativi Arfou Mounkaila denuncia il furto ai carabinieri della stazione Trionfale, ammette a labbra strette che quei ladri sono stati molto fiacchi. Tanto rumore, e fatica, per nulla. 
Mounkaila tace quel che non può dire. Mancano carte intestate, timbri ufficiali, questa è la verità che è opportuno tacere. E' materiale buono nelle mani della "squadretta" di vendifumo per confezionare uno strampalato dossier. 

Vi si raccolgono vecchi documenti sottratti all'archivio della divisione del Sismi come i cifrari (Nucera vicecapocentro) più carta intestata che viene trasformata in lettere, contratti e in un "protocollo d'intesa" tra i governi del Niger e dell'Iraq "relativo alla fornitura di uranio siglato il 5 e 6 luglio 2000 a Niamey". Il protocollo ha un allegato di due pagine dal titolo "Accord". Rocco consegna il "pacco" ai francesi della Direction Générale de la Sécurité Extérieure (Dgse). Ne ricava qualche bigliettone che spende felice a Nizza. Rocco adora la Costa Azzurra. 

Fin qui siamo a una truffa degna di Totò, Peppino e la Malafemmina. A suo modo innocua perché i francesi prendono quelle carte e le gettano nel cestino. Dice un agente del Dgse: "Il Niger è un paese francofono che conosciamo bene. Mai nessuno avrebbe preso la cantonata di confondere un ministro con un altro, come accade in quelle cartacce". 
Partita chiusa, dunque? No, l'imbroglio burlesco si rianima diventando una faccenda terribilmente seria perché arriva l'11 settembre e Bush da subito comincia a pensare all'Iraq, a chiedere prove dei coinvolgimento di Saddam. 

Il Sismi richiama in campo la "squadretta" di via Baiamonti. A Forte Braschi è arrivato un nuovo direttore, Nicolò Pollari. Come nuovo è il responsabile delle "Armi di distruzione di massa", il colonnello Alberto Manenti. "Un ufficiale preparato, ma assolutamente incapace di dire "no" a un capo", dice un alto funzionario del Sismi che con lui ha lavorato. Il colonnello Manenti conosce bene Nucera per averlo avuto nel suo staff, per molto tempo. E' Manenti, con Nucera prossimo alla pensione, che gli chiede di restare come "collaboratore". 

Il Sismi ha voglia di fare. Ha mano libera come mai l'ha avuta l'intelligence nel nostro Paese. Berlusconi chiede a Pollari un protagonismo nella scena internazionale che consenta all'Italia di sedere in prima fila accanto all'alleato americano. Le stesse sollecitazioni arrivano dal capo della Cia a Roma, Jeff Castelli. Occorono notizie, informazioni, utili brandelli di intelligence. Ora, subito. Washington cerca prove contro Saddam. 

La Casa Bianca (Cheney, soprattutto) stressa la Cia perché saltino fuori. "L'assenza delle prove non è la prova dell'assenza" filosofeggia Rumsfeld al Pentagono. 
In questo clima, con il loro dossier fasullo, i vendifumo di via Baiamonti (Rocco Martino e Antonio Nucera) possono tornare utili. Che cosa fanno in quell'autunno del 2001? Rocco Martino la mette così: "Alla fine del 2001, il Sismi trasmette il dossier yellowcake agli inglesi del MI6. 

Lo "passa" senza alcuna valutazione. Sostiene soltanto che è stato ricevuto da "fonte attendibile"". Poi l'aggiusta ancora un po': "Il Sismi voleva che disseminassi alle intelligence alleate i documenti del dossier nigerino, ma, allo stesso tempo, non voleva che si sapesse del suo coinvolgimento nell'operazione". Sono accuse che Palazzo Chigi respinge con sdegno. Il governo ci mette la faccia. Dopo che la guerra ha svelato l'imbroglio delle armi di distruzione di massa, giura che "nessun dossier sull'uranio né direttamente né in forma mediata, è stato consegnato o fatto consegnare ad alcuno". 

La mossa è prevedibile. Governo e Sismi devono scavare un fossato tra Forte Braschi e i passi della "squadretta" di via Baiamonti. Ma la smentita non regge alla verifica. E' un fatto che nell'autunno del 2001 il Sismi controlla a Londra le mosse di Rocco Martino. Lo conferma a Repubblica il direttore del Sismi Pollari: "Seguivamo Martino e avevamo anche le foto dei suoi incontri a Londra. Volete vederle?". E dunque perché Roma non sbugiarda subito quel suo ex-agente vendifumo? Di più perché addirittura le notizie contenute in quel dossier vengono accreditate da Pollari a Jeff Castelli, il capo della Cia a Roma? E' un fatto che un report sul farlocco dossier made in Rome finisce sul tavolo dello State Department's Bureau of Intelligence, l'intelligence del Dipartimento di Stato. Lo riceve l'Ufficio per gli affari strategici, militari e di proliferazione delle armi di distruzione di massa. 

Affari strategici non è un grande ufficio. Vi lavorano in quel periodo 16 analisti diretti da Greg Thielmann. Che racconta a Repubblica: "Ricevo il report nell'autunno del 2001. E' una sintesi che Langley ha ricevuto dal suo field officer in Italia. L'"agente in campo" informa di aver avuto visione dall'intelligence italiana di alcune carte che documentano il tentativo dell 'Iraq di acquistare oltre 500 tonnellate di uranio puro dal Niger". Dunque, il Sismi affida quelle informazioni, che sa essere false, alla Cia. C'è una seconda conferma. A Langley l'ambasciatore Joseph C. Wilson riceve l'incarico di verificare la storia "italiana" delle 500 tonnellate di uranio nigerino. 

Racconta Wilson: "Il rapporto non è molto dettagliato. Non è chiaro se l'agente che firma il rapporto ha materialmente visto i documenti di vendita o ne ha avuto notizia da altra fonte". 
Bisogna ora fermare la prima immagine di questa storia. 

Autunno 2001. Il Sismi di Pollari ha in mano il farlocco dossier costruito da Rocco Martino e Antonio Nucera. Lo mostra alla Cia mentre Rocco Martino lo consegna a Londra al MI6 di sir Richard Dearlove. E' solo l'inizio del Grande Inganno italiano. 
(1 continua) 

(24 ottobre 2005) 



http://www.repubblica.it


L'INCHIESTA/ 

La missione del direttore del Sismi negli States
per accreditare l'acquisto di materiale nucleare da parte di Saddam

"Pollari andò alla Casa Bianca
per offrire la sua verità sull'Iraq"

Il dossier sull'uranio dal Niger non coinvolgeva la Cia
di CARLO BONINI e GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - Per Nicolò Pollari, direttore del Sismi, le regole del suo mestiere sono inequivoche. Dice a Repubblica: "Sono il direttore dell'intelligence e il mio solo interlocutore istituzionale, dopo l'11 settembre, è stato a Washington il direttore della Cia, George Tenet. Come è ovvio, io parlo soltanto con lui...". Ma è proprio vero che le nostre barbefinte hanno lavorato soltanto con la Cia? Oppure hanno sostenuto anche gli sforzi clandestini dell'intelligence parallela creata da Dick Cheney e Paul Wolfowitz con il "gruppo Iraq", l'Office for Special plans del Pentagono, l'ufficio del consigliere per la Sicurezza nazionale, determinatissimi a trovare le prove utili per il "cambio di regime" a Bagdad? 

È un fatto che, alla vigilia della guerra in Iraq e con la supervisione del consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Gianni Castellaneta (oggi ambasciatore negli Usa), il direttore del Sismi organizza a Washington la sua agenda con lo staff di Condoleezza Rice, in quegli anni consigliere per la Sicurezza nazionale alla Casa Bianca. Repubblica è in grado di documentare questo doppio binario del governo e dell'intelligence italiana. Almeno uno degli incontri "molto poco istituzionali" di Pollari e, come dicono gli agenti segreti, la "realizzazione di un sistema" che tiene insieme Governo - Intelligence - Informazione. 

Breve riepilogo. Il Sismi di Nicolò Pollari vuole accreditare l'acquisto iracheno di uranio grezzo per fabbricare una bomba nucleare. Lo schema del gioco è alquanto trasparente. Le carte "autentiche" su un tentativo di acquisto in Niger (vecchia "intelligence" italiana degli anni Ottanta) le porta in dote il vicecapo del Centro Sismi di Roma (Antonio Nucera). Vengono affastellate con altra cartaccia costruita alla bell'e meglio con un furto simulato nell'ambasciata del Niger (se ne ricavano carta intestata e timbri). I documenti vengono mostrati dagli uomini di Pollari agli agenti della stazione Cia di Roma mentre un "postino" del Sismi, un tale di nome Rocco Martino, li consegna a Londra al MI6 di sir Richard Dearlove. 

È la prima istantanea. Torna utile per raccontare il secondo capitolo del Grande Inganno organizzato in Italia per costruire la necessità di un intervento militare in Iraq. Lo abbiamo già visto. Greg Thielmann, ex direttore del bureau di intelligence del Dipartimento di Stato, si ritrova sul tavolo il report "italiano" sull'uranio. Non ricorda la data esatta. 

Parla genericamente di autunno del 2001. Però il giorno esatto può essere rilevante. È il 15 ottobre del 2001. In quel giorno si annodano, con una sorprendente coincidenza, tre avvenimenti. Nicolò Pollari, nominato dal governo il 27 settembre, assume la direzione del Sismi dopo essere stato il numero due al Cesis (organismo di coordinamento dell'intelligence a Palazzo Chigi). Silvio Berlusconi viene finalmente ricevuto a Washington da George W. Bush. Porta quella data, 15 ottobre, il primo rapporto della Cia sulle evidenze in possesso degli italiani. Nulla si può dire di questa coincidenza se non prendere atto di una circostanza: gli italiani hanno una dannata voglia di darsi da fare. Berlusconi ha avuto difficoltà, dopo l'infelice sortita sullo "scontro tra civiltà", a farsi ricevere da una Casa Bianca alle prese con i regimi arabi moderati. Pollari ha l'ambizione di mettersi subito in sintonia con il premier e il nuovo corso. Il fresco capo dell'unità sulle "Armi di Distruzione di Massa" al Sismi, il colonnello Alberto Manenti (superiore gerarchico di Antonio Nucera) ha voglia di mettersi in sintonia con il nuovo direttore. È un fatto che mentre Bush mostra a Berlusconi il giardino delle rose della West Wing, la Cia prende atto, come scrive Russ Hoyle (per un anno ha analizzato le conclusioni delle commissioni di inchiesta del parlamento americano) che l'intelligence italiana ha una notizia con i fiocchi: "Negoziati (Niamey/Bagdad) circa l'acquisto di uranio sono in corso a partire dall'inizio del '99 e che la vendita è stata autorizzata dalla Corte di Stato del Niger nel 2000". Non viene citata alcuna prova documentale in grado di dimostrare che la spedizione di uranio effettivamente sia avvenuta. Gli analisti della Cia considerano questo primo rapporto "assai limitato" e "privo di dettagli necessari". Analisti dell'INR (Intelligence and Research) del Dipartimento di Stato qualificano le informazioni "altamente sospette". 

Il primo impatto con la comunità dell'intelligence americana non è per Pollari gratificante, per così dire, e tuttavia è utilissimo. Il direttore del Sismi, che non è un fesso, fa presto a ricostruire geografia e primattori del sordo conflitto in corso nell'amministrazione americana tra chi (Dipartimento di Stato, Cia) invoca prudenza e pragmatismo e chi (Cheney, Pentagono) chiede soltanto l'opportunità per dare il via a una guerra già pianificata. D'altronde, al rientro in Italia il direttore del Sismi verifica che anche a Roma è rappresentato quel conflitto. Gianni Castellaneta gli consiglia di guardare anche "in altre direzioni", mentre il ministro della Difesa Antonio Martino lo invita a ricevere "un vecchio amico dell'Italia". L'amico americano è Michael A. Ledeen, una vecchia volpe dell'intelligence "parallela" Usa, già dichiarato dal nostro Paese "indesiderabile" negli anni Ottanta. Ledeen è a Roma per conto dell'Office for Special Plans, creato al Pentagono da Paul Wolfowitz per raccogliere intelligence che sostenga l'intervento militare in Iraq. Racconta a Repubblica una fonte di Forte Braschi: "Pollari, per quelle informazioni sull'uranio, ottiene dal capo della stazione Cia di Roma, Jeff Castelli, soltanto freddezza. Castelli, apparentemente, lascia cadere la storia. Pollari capisce l'antifona e ne parla con Michael Ledeen...". Non si sa che cosa mosse Michael Ledeen a Washington. Ma, all'inizio del 2002, Paul Wolfowitz convince Dick Cheney che la pista dell'uranio intercettata dagli italiani va esplorata fino in fondo. Il vicepresidente, come racconta il Senate Selected Committee on intelligence, chiede ancora una volta alla Cia "con molta decisione" di saperne di più del "possibile acquisto di uranio nigerino". In quel meeting, Dick Cheney dice esplicitamente che questo brandello di intelligence è a disposizione di "un servizio straniero". 

È stata l'intelligence parallela del Pentagono a distribuire le "nuove informazioni", secondo le quali "esiste un accordo del Niger con l'Iraq per la vendita di 500 tonnellate di uranio all'anno". I tecnici del Dipartimento sorridono dell'informazione. 500 tonnellate di uranio. Una quantità iperbolica. La notizia è palesemente priva di qualsiasi attendibilità. Tutti i report indipendenti, sollecitati dopo la "nota italiana", avvertono che le due miniere nigerine di Arlit e Akouta non sono in grado di estrarre più di 300 tonnellate l'anno. Ma i tempi sono quelli che sono. George Tenet, azzoppato dai buchi di intelligence dell'11 settembre, fa buon viso a cattivo gioco e diventa addirittura sordo quando l'intelligence del Dipartimento di Stato, come racconta a Repubblica Greg Thielmann, gli oppone che "le informazioni raccolte in Italia sono inconsistenti. Che la storia dell'uranio nigerino è falsa. Che un mucchio di cose che ci sono state riferite sono fasulle". 

"Pollari è furbissimo - dicono ancora a Forte Braschi - capisce che, per spingere la storia dell'uranio, non può affidarsi soltanto alla Cia. Deve lavorare, come indicano Palazzo Chigi e Difesa, con il Pentagono e con il consigliere per la Sicurezza nazionale, Rice". L'affermazione potrebbe essere soltanto maligna (il mondo delle spie spesso lo è), ma conferme del "canale alternativo" che Pollari crea a Washington si possono afferrare con un'immagine e un incontro. 

L'immagine è questa. Pollari è a Washington. Incontra George Tenet e, come spesso capita, le presentazioni vengono santificate nella sala riservata di un hotel nei pressi di Langley. Chi ha assistito al convinvio racconta a Repubblica: "Pollari non deve fidarsi troppo del suo inglese perché sistema tra lui e il direttore della Cia una signora che gli fa da interprete. Con qualche esito imbarazzante. George, per familiarizzare, rivela alcune informazioni su Al Qaeda e l'Italia che l'Agenzia ha raccolto tra i prigionieri di Guantanamo. Tenet si attende perlomeno un sorriso, se non un grazie. Ne ricava soltanto una faccia di pietra. Se ne dispiace, prima. Ne diffida, poi. Ma quel che colpisce tutti, intorno a quel tavolo, è l'assoluta marginalità in cui Pollari tiene il suo capocentro a Washington". Questa estraneità è interessante. In quel 2002, il capocentro Sismi a Washington è l'ammiraglio Giuseppe Grignolo. Ha un'esperienza importante nella proliferazione delle armi di distruzione di massa, rapporti eccellenti con la Cia e soprattutto la stima del n. 2 dell'Agenzia, Jim Pavitt. Ricorda una fonte di Forte Braschi: "In realtà, noi vogliamo tener fuori la Cia dal nostro lavoro e Pollari non si fida di Grignolo, lo giudica troppo vicino a Langley. Così gli tace ogni mossa. Lo costringe, per dire, a occuparsi inutilmente della fedina penale dei nuovi assunti al Servizio che hanno magari trascorso qualche anno negli States... I contatti più significativi, in quei mesi, passano altrove. Attraverso Gianni Castellaneta con Condi Rice e, attraverso Ledeen, con l'Office for Special plans di Paul Wolfowitz e Doug Feith. È Castellaneta che fissa l'incontro di Pollari negli uffici del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca". Quando, e di che cosa parlano? "Di che cosa volete che parlino nell'estate del 2002? Di armi di distruzione di massa". La data dell'incontro? "Questa la tengo per me... e comunque basta controllare nei registri del Cai i piani di volo Ciampino-Washington". 

A Roma difficile ottenere quei piani di volo. Maggiore fortuna si ha a Washington. Un funzionario dell'Amministrazione dice a Repubblica: "Posso confermare che il 9 settembre del 2002, il generale Nicolò Pollari incontrò Stephen Hadley, il vice dell'allora consigliere per la Sicurezza nazionale, Condoleezza Rice". 

Come il 15 ottobre del 2001, anche il 9 settembre del 2002 è una data che propone qualche coincidenza. In quelle ore, è in chiusura il numero di Panorama che sarà in edicola con la data 12/19 settembre 2002. È una consuetudine, nell'"affaire yellowcake", ricordare che il "postino" del Sismi, Rocco Martino, contatta in ottobre una giornalista del settimanale - diretto allora da Carlo Rossella - per venderle i documenti dell'imbroglio. Nessuno ricorda che, nel numero 12/19 settembre 2002, in coincidenza dunque dell'incontro segreto di Pollari con Hadley, Panorama trova uno scoop planetario. Titolo: "La guerra? È già cominciata". Racconta di "un carico di mezza tonnellata di uranio". Si legge nell'articolo: "Gli uomini del Mukhabarat, il servizio segreto iracheno, lo hanno acquistato attraverso una società di intermediazione giordana nella lontana Nigeria, dove alcuni mercanti lo avevano contrabbandato dopo averlo trafugato dal deposito nucleare di una repubblica dell'ex Urss. I 500 chili di uranio sono poi approdati ad Amman, e da qui, via terra, dopo sette ore di viaggio, hanno raggiunto la destinazione: un impianto a 20 chilometri a nord di Bagdad, denominato Al Rashidiyah, noto per la produzione e il trattamento del materiale fissile". E più avanti: "... L'allerta riguarda la Germania, dove negli anni passati l'Iraq ha cercato di acquistare dalla società "Leycochem" tecnologia e componenti industriali... e anche i richiestissimi tubi di alluminio per le centrifughe a gas". 

Anche se in un contesto inesatto (Nigeria e non Niger, un lapsus calami?) e in qualche tratto favolistico (contrabbando dall'ex-Urss all'Africa con camion), quel che conta osservare è che, nelle rivelazioni di Panorama, la ricetta, per dir così, ha già tutti gli ingredienti giusti che poi porteranno alla guerra: 500 tonnellate di uranio che dall'Africa raggiungono Bagdad; tubi di alluminio per centrifughe nucleari. Sembra di poter ragionevolmente osservare che lo schema che si vede al lavoro in Italia è sovrapponibile senza sbavature al modulo che sostiene negli Usa l'affare Cia-gate/New York Times. Il governo chiede. L'intelligence dà. I media diffondono. Il governo conferma. È una tecnica di disinformazione vecchia come la Guerra Fredda. Esagerare la pericolosità del nemico. Terrorizzare e convincerne l'opinione pubblica. Con un'aggravante in casa nostra. Il magazine che diffonde le notizie avvelenate è di proprietà del presidente del Consiglio che governa l'intelligence e vuole essere e apparire il miglior alleato di George W. Bush, ansioso di andare in guerra. 

Si può ora dire che, preparato così il terreno, Pollari può concentrarsi su un altro aspetto essenziale della manovra. Promuovere il Sismi e se stesso, incassando i ricavi dell'oscuro lavoro di un anno. Accecare il Parlamento con notizie prudentemente manipolate e con rivelazioni che richiederebbero finalmente una ricostruzione attendibile, documentata, e non il muro del segreto di Stato (che sarà opposto da Gianni Letta il 16 luglio del 2003). 

Al ritorno dall'incontro segreto con Hadley, Pollari viene ascoltato dal comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Le audizioni sono due. Nella prima, il direttore del Sismi sostiene: "Non abbiamo prove documentali, ma informazioni che un Paese centro-africano ha venduto uranio puro a Bagdad". Trenta giorni dopo, Pollari dice: "Abbiamo le prove documentali dell'acquisto di uranio naturale da parte dell'Iraq in una repubblica centro-africana. Ci risulta anche il tentativo iracheno di acquistare centrifughe per l'arricchimento dell'uranio da industrie tedesche e forse italiane". Uscito dal Parlamento, Pollari ha ancora il problema di veicolare verso Washington, senza lasciare alcuna impronta digitale, il documento farlocco. Gli viene incontro una circostanza molto fortunata. Il "postino" del Sismi Rocco Martino, che ha già bussato alla porta dell'MI6, contatta l'inviata di Panorama Elisabetta Burba e tenta di venderle il dossier. È un'idea del vendifumo o una sollecitazione di Antonio Nucera o di chi? La Burba, correttamente, controlla l'informazione in Niger. Si inventa un'inchiesta di copertura sui dinosauri, dall'Oranosaurus nigeriensis all'Afrovenator abakensis. 

Nel frattempo avvicina qualche attendibile fonte. Elisabetta fa quel che deve con rigore e tenacia. Conclude che quella storia non sta in piedi e non pubblica una riga. Ma tutto, in realtà, è già accaduto, perché il direttore del settimanale, Carlo Rossella, entusiasta di aver forse trovato, come dice al suo staff, la "smoking gun", l'ha spedita a consegnare quelle carte all'ambasciata americana, scelta come "la più alta fonte di verifica". Pollari avverte il giornale del presidente del Consiglio, fresco dello scoop sull'uranio, che quella roba è robaccia? A quanto pare, no. Così, Jeff Castelli e la Cia si ritrovano nelle mani la frittata malfatta che, già da un anno, si rifiutano di assaggiare. Sono carte così truffaldine che possono essere soltanto nascoste, se non si vogliono mortificare le attese di Dick Cheney. L'arrivo delle carte a Washington viene come "silenziato". Sono distribuite il 16 ottobre 2002 alle diverse agenzie di intelligence da funzionari del Dipartimento di Stato durante uno dei regolari meeting cui prendono parte quattro funzionari della Cia. Nessuno di loro è in grado di ricordare se le avesse o meno ottenute. Misteriosamente, a Langley, le "carte italiane" si "perdono" per tre mesi e, soltanto dopo un'indagine interna dell'Ispettorato generale, se ne ritrova una copia nella cassaforte dell'Unità Controproliferazione. È il primo affondo italiano. La "bufala" dell'uranio raddoppia con la frottola dei tubi di alluminio. Ma questa è un'altra storia. 
(2. continua) 

(25 ottobre 2005) 

Modificato da Libero.ForumFree - 1/11/2005, 08:13



L'INCHIESTA. 


Pollari sapeva che il materiale acquistato da Saddam
non era destinato al nucleare. 

Ma alla Casa Bianca preferì tacere


Nigergate, il Grande Inganno
sulle centrifughe nucleari 


Lo strano scoop di Panorama che prese per buono il dossier uranio
di CARLO BONINI E GIUSEPPE D'AVANZO


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Nicolò Pollari 



È affare di date, la storia del coinvolgimento italiano nelle manipolazioni che giustificano la guerra irachena. Ne abbiamo già avuto la percezione. È ancora una data che sbroglia e svela il secondo capitolo del Grande Inganno. 

9 settembre 2002. In quel giorno, nelle stanze del National Security Council, c'è un incontro segreto e molto strampalato, se si guarda alla trasparenza istituzionale. 

Perché il direttore del nostro servizio segreto incontra un'autorità politica della Casa Bianca? Naturale che Nicolò Pollari incontri il direttore della Central Intelligence Agency. Ordinario che il direttore del Sismi incontri la sua autorità politica. Bizzarro che incontri l'autorità politica di un Paese straniero ancorché alleato: per questi meeting ci sono ministri e sottosegretari. Allora, di che cosa discute con Stephen Hadley? 

Questo Hadley non è uomo da terza fila, alla Casa Bianca. Oggi è il consigliere per la Sicurezza Nazionale. Nel 2002 è il vice di Condoleezza Rice e "nodo" della rete "parallela" di intelligence voluta da Dick Cheney per rendere legittima la guerra a Saddam. E' l'uomo che, soltanto per dirne una, si assume la responsabilità delle sedici parole, pronunciate da George W. Bush nel discorso sullo stato dell'Unione, che il 28 gennaio 2003 valgono il conflitto. 

Si sa che Hadley, con Pollari, ragiona di armi di distruzione di massa. Legittimo chiedersi che cosa sappia Pollari, il 9 settembre del 2002, dell'uranio nigerino. Come egli stesso ammette, sa tutto. E' informato dell'avventura di Rocco Martino. I suoi uomini addirittura gli stanno dietro. Conosce i passi del vice-capocentro del Sismi Antonio Nucera, che aiuta il vendifumo. Quel giorno, Pollari è nella migliore condizione per fare una scelta. Dire al vice della Rice che, per la Casa Bianca, è meglio lasciar cadere quella storia dell'uranio, perché è una bufala, perché quei due, Martino e Nucera, sono due impostori. O, al contrario, rafforzare le convinzioni dell'alleato. Magari con un accorto silenzio. Che cosa sceglie? Per saperlo torna buono vedere come si muove Pollari nell'altro caso affrontato nel colloquio con Hadley. E' il dossier "centrifughe". 

Appena 24 ore prima, 8 settembre 2002, Judith Miller ha raccontato, dalla prima pagina del New York Times, della minaccia nucleare custodita a Bagdad. "Negli ultimi 14 mesi - scrive la reporter - l'Iraq ha cercato di acquistare tubi in alluminio che, secondo i funzionari americani, devono essere utilizzati come rivestimento dei rotors delle centrifughe per l'arricchimento d'uranio". 

Il 9 settembre 2002, dinanzi a Hadley, Pollari ha gli strumenti per affrontare anche questo aspetto della questione. Il Sismi, come ammette, ha "prove documentali dell'acquisto di tubi di alluminio da parte irachena". Vediamo di che cosa si tratta. 

Sono tubi di alluminio 7075-T6. E' il materiale preferito per un sistema di missili a basso costo (ogni tubo costa 17 dollari e 50 centesimi). Sono fatti di una lega estremamente dura, che li rende potenzialmente adatti come rotors di una centrifuga capace di separare i costituenti dell'uranio fissili da quelli non fissili. Non è un'operazione agevole perché poi le centrifughe devono essere migliaia (16.000) ed essere in grado di sostenere in sincronia rotazioni a velocità estremamente alte. 

Come si sa, la Cia e anche il prudentissimo segretario di Stato Colin Powell si convincono che si tratta di materiale "dual use" destinato al programma nucleare iracheno. Powell sfodera tutta la sua esperienza di soldato. Dice: "Non sono un esperto di centrifughe, ma come veterano dell'esercito lasciatevi chiedere questo: perché gli iracheni si stanno dando tanto da fare per quei tubi che, se fossero razzi, andrebbero rapidamente in pezzi dopo il loro lancio?". 

L'obiezione, incredibilmente, resta in piedi anche quando gli scienziati dell'Oak Ridge National Laboratory (con centrifughe, arricchiscono uranio per l'arsenale nucleare degli Stati Uniti) annientano la teoria di Powell. Sostengono che quei tubi sono "troppo stretti, troppo pesanti, troppo lunghi e facili a creparsi per essere utilizzati come componenti di centrifughe". Concludono gli scienziati di Oak Ridge: "Quei tubi servono alla costruzione di un particolare proiettile d'artiglieria". 

Dunque, l'8 settembre 2002, Judith Miller rappresenta i tubi di alluminio come "la pistola fumante". Il giorno dopo, Pollari è seduto di fronte ad Hadley. Che cosa gli racconta? Pollari sta zitto. Non svela ciò che sa dei tubi di alluminio che tanto preoccupano (o entusiasmano) l'Amministrazione Bush. La disgrazia è che quei tubi - 7075-T6, lunghi 900 millimetri, diametro 81 millimetri, superficie dello spessore 3.3 millimetri - sono arnesi molto familiari per l'esercito italiano. Sono i proiettili di artiglieria del missile da 81 mm del sistema aria-terra "Medusa", adottato dagli elicotteri di Esercito e Marina. In realtà, gli iracheni stanno soltanto tentando di riprodurre delle armi che hanno imparato a conoscere nei lunghi anni della collaborazione economico-militare-nucleare tra Roma e Bagdad (i migliori ufficiali dell'Esercito e dell'Aeronautica irachena sono stati addestrati nel nostro Paese negli anni Ottanta). Lo stato maggiore di Saddam ha bisogno di duplicarli, per dir così, perché le scorte sono state conservate all'aperto e sono ormai rugginose. Ecco la ragione dei nuovi acquisti in alluminio anodizzato. 

Perché Pollari non spiccica parola? Se si pone la domanda a Greg Thielmann, ex capo del bureau di intelligence del Dipartimento di Stato, si ottiene questa risposta: "Ma voi davvero non avete capito perché l'intelligence militare italiana non ci ha dato nessuna indicazione che consentisse di escludere definitivamente che quei tubi servissero per un programma nucleare? Io un'idea ce l'ho. Il Sismi, come la Cia e come l'intera comunità dell'intelligence anglo-americana, deve e vuole compiacere i falchi della nostra Amministrazione". Il giudizio è sonoro come una fucilata. Sono le date a offrire una conferma difficile da eludere. 

8 settembre 2002, Judith Miller lancia il sasso. 
9 settembre 2002, Hadley incontra Pollari. 
11 settembre 2002, l'ufficio di Stephen Hadley chiede alla Cia un nullaosta che permetta al presidente degli Stati Uniti di utilizzare in un discorso pubblico le informazioni sulla vendita dell'uranio nigerino. In particolare, per quel che riferisce il rapporto del Selected Committee on Intelligence la richiesta che arriva alla Cia dal gabinetto del National Security Council chiede testualmente a George Tenet che "George W. Bush sia autorizzato a dire: "L'Iraq ha compiuto diversi tentativi di acquistare tubi di alluminio rinforzato da utilizzare per centrifughe per l'arricchimento di uranio. Sappiamo inoltre che, nell'arco degli ultimi anni, l'Iraq ha ripreso i tentativi per ottenere grandi quantità di uranio ossidato noto come yellowcake. Componente necessaria al processo di arricchimento"". La Cia dà il suo nullaosta (a Cincinnati, Ohio, il 7 ottobre 2002, la frase autorizzata cade dal discorso presidenziale. 

Il giorno prima, Langley ne raccomanda la cancellazione: "L'intelligence è debole. Una delle due miniere citata dalla fonte come luogo di estrazione dello yellowcake risulta allagata. L'altra è sotto il controllo delle autorità francesi"). 

Bisogna ora chiedersi che cosa combina Pollari. Questa ingarbugliata faccenda dello yellowcake e delle centrifughe si impasticcia intorno ai documenti farlocchi di Rocco Martino. Chi li ha dati a chi, quando, come? Chi li ha letti e ne ha taciuto l'infondatezza? Chi ha creduto nella loro fondatezza e li ha "disseminati"? L'affare ha il suo fuoco in queste risposte, ma anche nelle parole che non vengono dette. Gli italiani sanno che Rocco Martino è un cialtrone. Hanno ben presente che le uniche carte autentiche di quel dossier sono vecchia intelligence, sottratta all'archivio della divisione del Sismi che si occupa delle armi di distruzione di massa. Pollari lascia correre la frottola per il mondo. Non "brucia" Rocco Martino che bussa alla porta dell'MI6 inglese. Anzi, lo accredita come "fonte attendibile". Non gela gli entusiasmi dell'amico americano Michael A. Ledeen e dell'Office for Special plans del Pentagono. Semplicemente ammutolisce mentre l'imbroglio si fa strada. Anzi, quando apre bocca, non spegne né delude il desiderio americano. Così avviene per i tubi di alluminio. Dopo una "brillante operazione", il Sismi ne viene materialmente in possesso. E' un'intelligence militare. Anche un soldataccio capirebbe che si tratta di "roba nostra", dei proiettili del "Medusa '81". Al Sismi naturalmente lo capiscono. Ma, anche in questo caso, il 9 settembre 2002 Pollari si chiude dinanzi ad Hadley in un riservato silenzio. Fa di più. 

12 settembre 2002. In edicola arriva Panorama. Nel lungo servizio titolato "La guerra? E' già cominciata", si raccolgono le rivelazioni decisive e inedite al mondo sul riarmo nucleare iracheno. Nessuno ha ancora parlato di uranio. Tantomeno di 500 tonnellate. Lo farà per la prima volta Tony Blair, ma soltanto il 24 settembre 2002. Due settimane dopo l'incontro Pollari-Hadley. Dodici giorni dopo lo "scoop" di Panorama. Il dossier di 50 pagine del governo di Londra afferma che l'Iraq sta cercando di acquisire uranio in Africa. Blair sostiene che "l'Iraq ha cercato di comprare significative quantità di uranio da un paese africano nonostante non abbia nessun programma di nucleare civile che lo richieda". Ancora oggi, il ministro degli Esteri inglese, Jack Straw, ripete che il "dossier italiano" non era l'evidenza che ha giustificato queste parole; che l'MI6 è in possesso di intelligence acquisita precedentemente. Queste "evidenze" non sono mai saltate fuori. "Se saltassero fuori - dice a Repubblica una fonte di Forte Braschi e sorride - si scoprirebbe facilmente e con qualche rossore che è intelligence italiana raccolta dal Sismi alla fine degli anni '80 e condivisa con il nostro amico, Hamilton Mac Millan". 

Non è, dunque, la loquacità a indicare le responsabilità italiane dello yellowcake. Sono i silenzi. Abbiamo visto come tace (o è costretto a tacere) il Sismi. Povero Sismi, non è mica il solo. Nessuno dei protagonisti di questo garbuglio, pur sapendo, fiata. Tace Panorama. Quando la direzione del magazine, di proprietà del capo del governo, deve ricostruire i contatti con Rocco Martino (che ha cercato di vendere l'imbroglio a Segrate) omette di ricordare che le informazioni contenute nel dossier truffaldino, già sono state pubblicate il mese prima. Il direttore del settimanale, inspiegabilmente, verifica quei documenti soltanto con l'ambasciata americana e non con il governo né tantomeno con le eccellenti fonti del servizio segreto italiano a cui, come dimostra lo "scoop" di settembre, ha accesso. Non trova alcun interesse nel raccontare, con un secondo potenziale "scoop" mondiale, che la storia su cui si sta imbastendo una guerra è falsa. Tace anche Palazzo Chigi, naturalmente. Il ruolo del consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi, Gianni Castellaneta, è stato essenziale nei rapporti tra il nostro Paese e quel network parallelo che Dick Cheney crea con il finanziamento di Ahmed Chalabi dell'Iraqi National Congress, con la raccolta dell'intelligence "aggiustata" dall'Office for Special Plans, con la diffusione mediatica di queste manipolazioni attraverso il "gruppo Iraq" (che si vede al lavoro anche nel caso Miller/New York Times). Ma chi ha sentito mai Castellaneta dire una parola e chi gli ha mai chiesto in un luogo istituzionale di dirla? 

Sta chiotto Gianni Letta. Quando affiora la verità del falso dossier italiano, il sottosegretario con delega ai servizi, contrariamente a quanto si legge nelle inesatte note del governo, si appella al segreto di Stato. Sostiene che nessuna documentazione può essere offerta al controllo del Parlamento perché si metterebbero "in pericolo fonti dei servizi". Quali fonti? Rocco Martino, carabiniere fallito, spione disonesto, doppiogiochista? O Antonio Nucera, vicecapo del centro Sismi di viale Pasteur che trafuga (o è costretto a trafugare), dall'archivio della sua Divisione, intelligence ammuffita per costruire "il pacco"?

E' evidente che, a frittata rovesciata, qualcosa bisogna pur raccontare dopo tanto silenzio. Pollari si muove nell'estate del 2004. Discretissimo, diventa improvvisamente loquacissimo. Apre addirittura il suo ufficietto a Palazzo Baracchini. Pollari se ne sta in una stanzetta buia, dietro uno scrittoio stracolmo di carte. Carte, carte, carte ovunque. Alla sua sinistra, c'è un altro scrittoio coperto di dossier come uno scoglio dall'onda. Spiega a Repubblica (è il 5 agosto 2004): "Non mi fido di nessuno. Le carte le voglio leggere io...". L'uomo appare in difficoltà. Sente sul collo l'alito maligno dei reporter americani dell'Atlantic Monthly. Si rigira tra le mani una richiesta di colloquio recapitata dalla televisione americana Cbs all'ambasciata italiana a Washington. Si chiede: "Che cosa vogliono questi da me? Chi è che li sta informando? La Cia? L'Fbi? Qualche transfuga della Cia? Qualche nemico del Fbi?". Sa che Rocco Martino è stato agganciato dai producer di 60 minutes e teme, come una catastrofe personale, la confessione del vendifumo davanti ai microfoni. Ora Pollari deve guadagnare una via d'uscita dall'impiccio e gli sembra di aver trovato il modo per uscire dall'angolo. Dice a Repubblica: "Sono stati i francesi del Dgse a trarre in inganno gli americani. Noi non c'entriamo nulla". Estrae da una cartellina una stampata in power-point multicolore (i colori sono giallo, rosso, viola, azzurro, verde). La cartuscella dovrebbe dimostrare il "ruolo dell'intelligence francese nell'affaire Niger". Mai sembra convincente. E' musica che suona stonata anche oggi. Il tempo ha dimostrato in modo solido l'infondatezza della "pista francese", farfallina già in partenza. Infatti, come accerta il rapporto del Senato americano, due settimane prima dell'inizio della guerra, il 4 marzo 2003, i francesi avvertono Washington che i documenti in loro possesso sono falsi perché sono gli stessi che Rocco Martino ha rifilato a Parigi. Non è stata mai rintracciata (né Pollari la rivendica) un'analoga nota italiana che possa dare uno stop all'irruenza di Dick Cheney. Il Sismi, come il governo, sa che l'intelligence contro l'Iraq è tutta fuffa. Tacciono. Come precipita nel mutismo l'intero circuito politico italiano. E' comprensibile il silenzio della maggioranza, ma l'ozio dell'opposizione può esserlo di fronte a una manipolazione che addirittura provoca una guerra? L'unico atto che si può registrare è la richiesta di una commissione di inchiesta presentata dall'Unione, una pretesa soltanto burocratica perché, una volta licenziata, può essere dimenticata. Così, mentre negli Stati Uniti si contano tre inchieste indipendenti (Cia-gate; Nigergate; cospirazione di Larry Franklin, funzionario dell'Office of Special plans), in Italia non si muove foglia. Se si ha la ventura di incontrare il pubblico ministero di Roma, Franco Ionta, per sapere almeno - così per curiosità - come è finita l'inchiesta su quel vendifumo di Rocco Martino, il magistrato spiegherà: "Sì, ho interrogato questo Martino. Un truffatore. In mezz'ora ho chiuso il verbale... Che volete che mi dicesse... Ora la richiesta di archiviazione è nelle mani del gip... Trattasi di buffonata...". Una buffonata italiana che può annegare nel silenzio. Della politica, dell'informazione, della magistratura. Così vanno le cose in Italia. 

(3, fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 24 e il 25 ottobre) 

domenica 30 agosto 2015

CRISI-EUROPA

Europa: la crisi è strutturale, la soluzione è politica

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A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne. Il gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico, appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha bisogno urgente di un altro governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. È una missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che darsi alla disperazione.
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.
La crisi della UE e dell’euro. La UE è stata fondata sulla base di una serie di gravi errori. Sbagliarono gli intellettuali e i politici che per primi concepirono l’unione come un sorta di abbraccio tra popoli che secondo loro avevano più cose in comune che differenze, a partire da una presunta “identità” o “cultura europea”, nonché dal comune orrore per le due “guerre civili” intervenute nel continente in poco più di trent’anni. Sbagliarono gli economisti nel credere e far credere che le grandi differenze di struttura industriale, produttività, composizione delle forze di lavoro, relazioni sindacali, ricerca e sviluppo, scambi con l’estero ecc. esistenti tra i vari stati membri sarebbero state colmate verso l’alto grazie ai benefici effetti di una moneta unica, l’euro. Infine sbagliarono i capi di stato e di governo nel credere che l’Unione, in quanto fondata sul principio “uno stato (piccolo o grande che fosse) uguale un voto”, sarebbe servita a contenere il predominio economico e politico della Germania.
Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale. La componente monetaria dell’Unione, fondamentale per il suo funzionamento, è stata dettata sin nei particolari dalla Germania. Nei suoi colloqui con il presidente francese Mitterrand, il cancelliere Kohl fu irremovibile nel pretendere che l’euro fosse il più possibile simile al marco; che la BCE fosse dichiarata per statuto indipendente dai governi, una clausola mai vista negli statuti delle banche centrali di tutto il mondo: tant’è vero che essa si è presto rivelata essere un organo prettamente politico, che invia lettere durissime agli stati membri, Italia compresa, affinché taglino sanità, pensioni e salari; che la BCE stessa avesse sede in una città tedesca (Francoforte). Su queste basi l’euro è stato giustamente definito il più efficace strumento mai inventato per tenere bassi i salari, demolire lo stato sociale e liquidare il diritto del lavoro.
A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna - la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica. Non basta: le politiche di austerità, secondo molti giuristi, hanno violato decine di articoli di tutte le leggi riguardanti i diritti umani e i crimini contro l’umanità, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ad oggi: leggi, si noti bene, che i trattati UE hanno a suo tempo fatto proprie. La popolazione reagisce a quanto avviene in due modi: non andando a votare nella misura del 60 per cento per l’unico organo UE democraticamente eletto, il Parlamento europeo, con punte dell’80 per cento nei nuovi stati membri (dati 2014); e dando invece un largo e crescente consenso alle formazioni di estrema destra, in Francia, Italia, Polonia, Ungheria, ecc. Il che farebbe pensare che gli elettori non abbiano memoria del pericolo che esse rappresentano per la democrazia – se non fosse che nella UE la democrazia è stata già da tempo svuotata di senso dalla oligarchia politico-finanziaria di Bruxelles e dintorni.
Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:
a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli). Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.
b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.
Nel caso invece che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro, ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica della transizione, e una estesa campagna di informazione pubblica prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.
È innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.
La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.
La crisi economica ed occupazionale. Nei paesi più sviluppati del mondo, USA e UE, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della UE, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella UE sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”). Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare.
La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.
Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.
Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.
Il caso italiano. Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.
Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.
Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.
Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.